sabato 19 ottobre 2013

Storia della guerra - 14: L'esercito di Federico il Grande


   In tempi un po’ diversi dagli attuali, quando profferire parole del genere non rischiava di esporsi a sciocchi fraintendimenti, re Federico Guglielmo I di Prussia, per altro noto per uno stile personale di vita alquanto incline ai rapporti con l’altro sesso, era solito affermare: «la più bella ragazza o donna del mondo potrebbe lasciarmi indifferente; i soldati, invece, sono il mio punto debole!». Non ci potrebbe essere incipit più eloquente per illustrare la ratio con cui, nei primi decenni del Settecento, i sovrani prussiani forgiarono uno “Stato caserma” e una macchina militare destinata a conquistarsi fama imperitura, grazie alle vittorie di Federico il Grande durante la Guerra dei Sette Anni (1757-1763).

   Fu proprio il padre di Federico il Grande, il già citato Federico Guglielmo I, a dedicare tutte le sue energie e tutte le risorse del Paese al potenziamento dell’esercito. Stato piccolo e relativamente povero, a fronte della grandi potenze dell’epoca come Francia, Gran Bretagna e impero austriaco, la Prussia, sotto la guida del “Re Sergente”, provvide all’edificazione di un esercito formidabile, basato sulla ripetizione ad infinito degli stessi esercizi e delle stesse manovre, nonché su una disciplina rigidissima, fondata sul fatto – come era solito sostenere Federico il Grande – che «in linea di massima il soldato deve temere il proprio ufficiale più del nemico». Il sistema si rivelò efficace, anche se fu costantemente travagliato dalla piaga delle diserzioni, poiché per chiunque era difficile resistere a lungo al tipo di coercizioni cui era sottoposto.

   Sotto il profilo tecnico, quello prussiano fu il primo esercito europeo a mettere concretamente in atto i perfezionamenti resi possibili dalla transizione dal moschetto al fucile. Quest’ultimo era più leggero e maneggevole del suo predecessore, e soprattutto poteva essere utilizzato dai fanti stando vicinissimi gli uni agli altri, senza che ciò comportasse rischi per la loro incolumità personale. Addestrati in maniera maniacale, spendendo un numero incredibile di ore nei poligoni di tiro e nelle piazze d’armi, i soldati prussiani – una volta completato il loro ciclo formativo – riescono a compiere le 22 manovre necessarie al caricamento dell’arma di cui sono dotati in soli 30 secondi. Ciò consente loro di sviluppare una cadenza di fuoco piuttosto serrata e sopperisce al fatto che il moschetto prussiano, lungo un metro, è talmente pesante in punta che molti fanti riescono a maneggiarlo con difficoltà, per cui non è raro che la punta tenda ad inclinarsi in avanti e i colpi a risultare bassi e corti. Tuttavia, alle carenze individuali sopperisce l’organizzazione del tiro, severamente coordinata dagli ufficiali e in grado, grazie al ricorso alternato alle tre linee di uomini che compongono lo schieramento classico della fanteria prussiana, di mantenere una cadenza di fuoco di 5-6 colpi al minuto. Ma non è tutto, perché le migliaia di ore spese dai reggimenti prussiani nelle piazze d’armi, impegnati a manovrare in ordine chiuso, consentono loro di imparare a muoversi con perfetta linearità e regolarità anche su terreni accidentati, mantenendo un allineamento perfetto e compiendo movimenti assai complessi. Tutto si basa sulla perfetta regolarità e la precisa lunghezza del passo che vengono addestrati a compiere, mantenendo una distanza di 71 centimetri tra i due piedi e muovendosi ad un rimo di 75 passi al minuto. Non è un andatura rapida, anzi è relativamente lenta, ma tale lentezza – palesemente studiata – conferisce ai movimenti cadenzati della fanteria prussiana un che di solenne, capace di impressionare psicologicamente il nemico. Se poi le esigenze operative lo rendono necessario, questi reparti non hanno alcuna difficoltà a passare da 75 a 120 passi al minuto, muovendosi molto più celermente.

   Questa perfetta macchina militare è frutto – come accennato – di uno “Stato caserma” al vertice del quale c’è il sovrano, circondato dalla nobiltà. Sono soprattutto i nobili di campagna, gli Junker, proprietari di appezzamenti di terra di varie dimensioni, ad esercitare un potere di tipo quasi feudale sui contadini che lavorano le loro terre e che costituiscono la gran massa dell’esercito. Fondato sul criterio della coscrizione obbligatoria, l’esercito prussiano ricalca alla perfezione la struttura organicistica della società che lo esprime: è reclutato su base locale e, nei suoi reggimenti, gli ufficiali appartengono spesso alle famiglie nobiliari della zona di provenienza del reggimento. Esiste dunque un paternalismo diffuso, che è frutto anche delle concezioni della monarchia prussiana, dove Federico II, succeduto al padre nel 1740, può forse non dimostrarsi insensibile alle suggestioni tipiche del “secolo dei Lumi”, ma è al tempo stesso un autocrate severo e inflessibile, molto scettico nei confronti della nascente borghesia locale e dei suoi valori, e fermamente convinto che solo la nobiltà sia dotata di quel senso dell’onore che, in battaglia, è indispensabile per il comando degli uomini. Non a caso, se Federico II (passato alla storia con l’appellativo de “il Grande” per i mirabili successi militari colti durante la Guerra dei Sette Anni) è colui che, afferrando alla battaglia di Kolin (1757) la bandiera del 3° Reggimento fanteria, cerca di vincere le esitazioni dei suoi soldati ad avanzare esclamando: «Furfanti, volete vivere in eterno?», è anche colui che, nel farlo, si pone alla testa del reggimento, marciando risolutamente verso il nemico. E, tra i suoi generali e ufficiali superiori, gli esempi in tal senso si sprecano. In una parola, la nobiltà prussiana conduce una vita di privilegi, ma è legatissima al sovrano, da cui derivano tutte le sue fortune e, sul campo di battaglia, sa morire e non esita a farlo, ben consapevole del fatto che la conquista della gloria militare è una delle più solide garanzie della perpetuazione del suo potere. Questa forma di moderna leadership by doing – come direbbero gli americani – fa del corpo ufficiali prussiano una casta e di chiunque appartenga ad essa un uomo che si colloca al di sopra della media, perché, quando è necessario – e lo è assai spesso – sa guardare freddamente in faccia la morte e non esita a sceglierla, se l’onore lo impone. Non a caso, le perdite al suo interno sono pesanti e non risparmiano nemmeno gli alti gradi.

   Quantitativamente solida (già nel 1740 poteva contare su un organico di 80.000 uomini; in quello stesso anno l’esercito austriaco, pur potendo contare su una base di popolazione dieci volte superiore a quella della Prussia, aveva una forza di soli centomila uomini; al culmine della Guerra dei Sette Anni, poi, l’esercito prussiano era costituito dal 4,4% dell’intera popolazione del regno, a fronte dell’1,6% della Francia), l’armata prussiana poteva contare su un corpo ufficiali fornito di una buona formazione di base e soprattutto su un comandante – lo stesso sovrano – che è giustamente annoverato tra i migliori capitani di tutti i tempi.

   Federico II riuniva in sé una serie di qualità, personali e frutto dell’educazione che gli era stata impartita, che ne facevano innanzi tutto un profondo conoscitore della macchina militare prussiana. Quest’ultima, in particolare sotto il profilo tattico, aveva raggiunto livelli di efficienza ineguagliati all’epoca, che consentirono al suo comandante di utilizzare soluzioni d’impiego nuove, a cominciare dal famoso “ordine obliquo” che, riprendendo una pratica risalente ad una tradizione militare della Grecia antica, quella tebana, gli permise in parecchie occasioni di affrontare il nemico non di fronte ma sul fianco, utilizzando ovviamente a proprio vantaggio tale superiorità. Ma Federico II perfezionò anche l’impiego della cavalleria (diversificando nettamente i compiti della cavalleria leggera da quelli della cavalleria pesante), quello dell’artiglieria (puntando sull’impiego di pezzi sempre più leggeri e in grado di sostenere sempre e comunque l’azione della fanteria) e si dimostrò soprattutto un abilissimo stratega, prendendo decisioni molto azzardate e assumendo rischi elevatissimi nella speranza di poter riportare successi altrettanto eclatanti. La grandiosa vittoria di Leuthen (1757) e la capacità di condurre un conflitto su più fronti contro nemici soverchianti costituiscono altrettante testimonianze del genio tattico e della straordinaria abilità strategica del re di Prussia.

   Le straordinarie fortune di cui poté godere la macchina militare prussiana intorno alla metà del Settecento la trasformarono in un esempio celebrato e rispettato da tutti gli eserciti europei, e le costruirono intorno una fama che era ancora ben viva nel 1806, quando tale macchina si nutriva essenzialmente di ricordi e venne spazzata via dalle armate napoleoniche nella battaglia di Jena. Tuttavia, la base che Federico il Grande aveva edificato era indubbiamente molto solida, se da essa scaturirono figure cruciali della storia militare prussiana come Scharnhorst, Gneisenau, un teorico raffinato come von Clausewitz e un “soldataccio” brutale ma efficace come il maresciallo Blücher. Le fanterie che già nel 1815 riuscirono a scacciare la Giovane Guardia da Plancenoit e ad irrompere sul fianco destro della Grande Armée a Waterloo, dando un contributo decisivo alle sorti della battaglia, erano le dirette discendenti di quelle di Jena. Sul solido modello fredericiano, erano state innestate innovazioni, in parte mutuate da quelle napoleoniche, che avevano riportato rapidamente in auge la tradizione militare prussiana.

                                                              Piero Visani




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