sabato 12 ottobre 2013

Jena (14 ottobre 1806)


   Per chi ami il periodo napoleonico, l’inizio dell’autunno non può che far ricordare la duplice vittoria di Jena e Auerstädt (14 ottobre 1806). È facile essere indotti, in casi del genere, a scivolare nella retorica sciovinistica (come talvolta capita ai francesi) o nella damnatio memoriae (come capita agli inglesi, sempre inclini a raffigurare i loro peggiori nemici come mostri estranei al genere umano), ma l’anniversario di queste due importanti battaglie è un evento ricco di implicazioni sul piano storico, politico e strategico che può essere interessante ricordare.

   Sconfitti ad Austerlitz (2 dicembre 1805) gli eserciti di Austria e Russia, la Francia napoleonica non aveva di fronte a sé che la Prussia in grado di ostacolare le sue ambizioni di egemonia nell’Europa centrale. Ma la Prussia di Federico Guglielmo III era quella che Mao Ze Dong avrebbe definito “una tigre di carta”. Un Paese che viveva di rendita sulle memorie di Federico il Grande e delle sue imprese, ma che, a differenza dell’impero napoleonico, aveva la mente rivolta al passato e non al futuro. Tuttavia, il prestigio del vincitore di Leuthen e Rossbach era talmente elevato, nell’Europa dell’epoca, che lo stesso Napoleone non poteva permettersi di disprezzare la Prussia, anche se – come ebbe ad osservare Carl von Clausewitz, il magistrale autore di Vom Kriege (“Della guerra”) - «dietro la bella facciata c’era solo muffa».

   La facciata, nondimeno, era prestigiosa e nessuno poteva permettersi di sottovalutare la Prussia, tanto più se – come nel caso dell’imperatore dei francesi – si sapeva che avrebbe potuto ricevere l’aiuto dell’Austria, della Russia e ovviamente della Gran Bretagna. La monarchia prussiana, per altro, era talmente tronfia di sé e del proprio passato, che si riteneva in grado di poter sconfiggere da sola l’”orco corso”. Il problema era che tutto quanto era accaduto dal 1789 in avanti si era svolto sotto i suoi occhi senza che se ne fosse accorta, o quasi, per cui il suo esercito era preparato a combattere le guerre precedenti, quelle del grande Federico, non il nuovo conflitto post-rivoluzionario e le grandi innovazioni che lo avevano radicalmente mutato. Pochissimi, nel regno di Prussia, avevano riflettuto sui contenuti di quanto Saint-Just aveva detto al generale Jourdan il 17 giugno 1794 («La guerre de la liberté doit être faite avec colère») e, tra questi, ancora meno avevano il coraggio di deprecare i puerili automatismi della Dressur e di capire che la guerra non era più un sanguinoso, ma in fondo formale, “gioco di sovrani”, bensì un gigantesco contrasto di forze morali e materiali, dove un esercito, per poter aspirare alla vittoria, non poteva essere una guardia privata del monarca, ma una forza squisitamente nazionale, un esercito di popolo.

   Nonostante ciò, poiché nella storia – come nella cronaca – arroganza e ignoranza procedono quasi sempre appaiate, la Prussia post-federiciana, ignara delle proprie debolezze e accecata da un’eccessiva autostima, non esitò, nel settembre 1806, a dichiarare guerra alla Francia napoleonica, stanca di essere continuamente pressata da quest’ultima a piegarsi ai suoi voleri.

   Napoleone non si aspettava la guerra e, dal momento che la campagna del 1805 aveva inciso pesantemente sulle casse dello Stato e sull’economia francese, neppure la voleva. Ma non aveva rinunciato neanche per un attimo – forte di una visione della politica e della strategia che appare straordinariamente moderna per la sua capacità di manipolazione dell’avversario – ad esercitare pressioni sulla monarchia prussiana, nell’intima consapevolezza che ciò avrebbe potuto indurla a commettere qualche passo falso. E la dichiarazione di guerra alla Francia fu sicuramente un errore, poiché offrì a Napoleone, che in fondo non chiedeva altro, il pretesto per riprendere la sua politica espansionistica in Europa centrale.

   Con suprema insipienza, la dirigenza prussiana aveva scelto la via della guerra senza nemmeno porsi il problema di come affrontarla materialmente, tanto che una delle poche lucide intelligenze militari prussiane in precedenza citate, il generale Gerhard von Scharnhorst, commentò tale decisione nel modo che segue: «Lo so ben io quello che dovremmo fare [l’uomo aveva un’alta opinione di sé], ma solo gli dei sanno quello che faremo». E in realtà non c’era granché da fare con un esercito abituato a spostamenti di minima entità, gravato da un sistema logistico pesantissimo e guidato da comandanti che si attenevano alla tradizione federiciana in forma quasi macchiettistica, priva di contenuti sostanziali. Contro di loro si ergeva la straordinaria macchina militare della Grande Armée, uno strumento flessibile, rapido, organizzato in base al sistema del battaillon carré, che gli consentiva una straordinaria capacità di adattamento, in tempi stretti, alle più diverse situazioni strategiche e tattiche.

   Con premesse di questo genere, la campagna del 1806 poteva ritenersi segnata fin dall’inizio e tuttavia la guerra non è un evento che possa essere sottoposto ad una logica razionale e tanto meno pianificato nei minimi dettagli con la pretesa che poi tutto si svolga secondo i piani. Al contrario, anche in quell’occasione molte cose non andarono per il verso giusto e si svolsero in modo del tutto imprevedibile: la più clamorosa dimostrazione di ciò è rappresentata proprio dal doppio scontro di Jena e Auerstädt del 14 ottobre 1806, le due battaglie che risolsero il conflitto. Nella circostanza, infatti, il nucleo principale della Grande Armée (96 mila uomini) ebbe ragione, sotto la personale guida di Napoleone, di circa 53 mila prussiani a Jena. Ma ad Auerstädt, a soli 15 chilometri di distanza, il III corpo d’armata, al comando del maresciallo Louis Davout (il migliore dei subalterni dell’imperatore), riuscì a sconfiggere da solo il grosso dell’esercito prussiano, con una vittoria che decise la campagna non meno (e forse più) di quella di Jena.

   Il conseguente sfruttamento del successo rappresenta uno straordinario esempio della “guerra lampo” napoleonica e di quanto il conflitto fosse mutato dopo la Rivoluzione francese: una travolgente cavalcata di poche settimane della Grande Armée attraverso la Germania, caratterizzata da non poche violenze e distruzioni a carico della popolazione civile. Tuttavia, questa evidente escalation del conflitto verso gli estremi non poteva avere conseguenze solo sui vincitori, ma ne ebbe anche sugli sconfitti e sulla loro volontà di resistenza: il debole sovrano Federico Guglielmo III avrebbe voluto che la Prussia si acconciasse alla pace, ma la sua consorte, la regina Luisa, e il ministro Hardenberg non vollero sentire ragioni e decisero di continuare la lotta. Ci vorrà la vittoriosa campagna del 1807 perché la Francia  napoleonica possa indurre la Prussia a più miti ragioni, con il trattato di Tilsit.

   Pure, un evento rovinoso di tale entità rappresentò il germe della nuova Prussia e addirittura della futura Germania. La lezione subita dai francesi era stata troppo dura per non dover essere analizzata, metabolizzata e fatta fruttificare. Un esercito composto prevalentemente di mercenari al soldo del sovrano era stato sconfitto da un esercito per eccellenza nazionale, pieno di coscritti talvolta tutt’altro che contenti di dover combattere a migliaia di chilometri dalle loro case, ma animati da un innegabile slancio e sostenuti da un profondo impeto morale. Tutti elementi di riflessione che non potevano sfuggire a uomini come Clausewitz, Scharnhorst, Gneisenau ed a quanti avevano a cuore la rinascita della Prussia. Non a caso, l’esercito nazionale prussiano ebbe un ruolo di primo piano nella definitiva sconfitta napoleonica già a partire dalla campagna del 1813 e ancora di più a Waterloo.

   Sono tutte vicende che agli occhi distratti dei contemporanei possono apparire infinitamente lontane e proprio per questo oziose, prive cioè di influenze sulla realtà. Si tratta di un errore grave, poiché le questioni cruciali della strategia sono rimaste essenzialmente le stesse e andrebbero lette con la necessaria cautela. È molto significativo, ad esempio, che la Grande Armèe napoleonica della campagna del 1806 fosse un esercito nazionale che schiacciava un esercito prevalentemente mercenario e che, solo pochi anni dopo, quella stessa Grande Armata fosse diventata una forza multinazionale priva di slancio patriottico e destinata prima a soffrire e poi a soccombere di fronte a nuovi eserciti nazionali, come quello prussiano riformato proprio dopo la disfatta di Jena.

   Ancora più importante è che da quella disfatta sia scaturita la riflessione clausewitziana sulla guerra come scontro di forze morali. Un insegnamento di grandissima attualità, che il mondo occidentale pare aver dimenticato. Animato da una logica imperiale errata e miope, esso non pare rendersi conto che da tempo sta affidando le sue fortune ad eserciti professionali che, pur di altissimo livello, hanno competenze e tecnologie superiori ma slancio inferiore ai loro nemici. Ne consegue che, quando si procede al computo delle perdite, risultano quasi sempre vincitori, ma quando si guarda ai risultati ottenuti sotto il profilo politico e strategico, gli esiti non sono altrettanto convincenti. Quella che sembra sfuggire, una volta di più, è la dimensione di “scontro di volontà” di qualsiasi conflitto. Ciò non significa certo perorare un ridicolo ritorno alla coscrizione obbligatoria, perché il vero problema è tutt’altro, vale a dire l’importanza, in guerra, delle “forze morali”. A questo può servire un breve ricordo della campagna di Jena, e non è un ammaestramento da poco. Ancora oggi siamo in presenza di conflitti in cui sono stati piegati eserciti nemici, ma non la volontà di combattimento che li ha espressi.

                     Piero Visani

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