Per chi ami il periodo napoleonico, l’inizio dell’autunno non può che far
ricordare la duplice vittoria di Jena e Auerstädt (14 ottobre 1806). È facile
essere indotti, in casi del genere, a scivolare nella retorica sciovinistica
(come talvolta capita ai francesi) o nella damnatio
memoriae (come capita agli inglesi, sempre inclini a raffigurare i loro
peggiori nemici come mostri estranei al genere umano), ma l’anniversario di
queste due importanti battaglie è un evento ricco di implicazioni sul piano
storico, politico e strategico che può essere interessante ricordare.
Sconfitti ad Austerlitz (2
dicembre 1805) gli eserciti di Austria e Russia, la Francia napoleonica non
aveva di fronte a sé che la Prussia in grado di ostacolare le sue ambizioni di
egemonia nell’Europa centrale. Ma la Prussia di Federico Guglielmo III era
quella che Mao Ze Dong avrebbe definito “una tigre di carta”. Un Paese che
viveva di rendita sulle memorie di Federico il Grande e delle sue imprese, ma
che, a differenza dell’impero napoleonico, aveva la mente rivolta al passato e
non al futuro. Tuttavia, il prestigio del vincitore di Leuthen e Rossbach era
talmente elevato, nell’Europa dell’epoca, che lo stesso Napoleone non poteva
permettersi di disprezzare la Prussia, anche se – come ebbe ad osservare Carl
von Clausewitz, il magistrale autore di Vom
Kriege (“Della guerra”) - «dietro la bella facciata c’era solo muffa».
La facciata, nondimeno, era
prestigiosa e nessuno poteva permettersi di sottovalutare la Prussia, tanto più
se – come nel caso dell’imperatore dei francesi – si sapeva che avrebbe potuto
ricevere l’aiuto dell’Austria, della Russia e ovviamente della Gran Bretagna.
La monarchia prussiana, per altro, era talmente tronfia di sé e del proprio
passato, che si riteneva in grado di poter sconfiggere da sola l’”orco corso”.
Il problema era che tutto quanto era accaduto dal 1789 in avanti si era svolto
sotto i suoi occhi senza che se ne fosse accorta, o quasi, per cui il suo
esercito era preparato a combattere le guerre precedenti, quelle del grande
Federico, non il nuovo conflitto post-rivoluzionario e le grandi innovazioni
che lo avevano radicalmente mutato. Pochissimi, nel regno di Prussia, avevano
riflettuto sui contenuti di quanto Saint-Just aveva detto al generale Jourdan
il 17 giugno 1794 («La guerre de la
liberté doit être faite avec colère») e, tra questi, ancora meno avevano il
coraggio di deprecare i puerili automatismi della Dressur e di capire che la guerra non era più un sanguinoso, ma in
fondo formale, “gioco di sovrani”, bensì un gigantesco contrasto di forze
morali e materiali, dove un esercito, per poter aspirare alla vittoria, non
poteva essere una guardia privata del monarca, ma una forza squisitamente
nazionale, un esercito di popolo.
Nonostante ciò, poiché nella
storia – come nella cronaca – arroganza e ignoranza procedono quasi sempre
appaiate, la Prussia post-federiciana, ignara delle proprie debolezze e
accecata da un’eccessiva autostima, non esitò, nel settembre 1806, a dichiarare
guerra alla Francia napoleonica, stanca di essere continuamente pressata da
quest’ultima a piegarsi ai suoi voleri.
Napoleone non si aspettava la
guerra e, dal momento che la campagna del 1805 aveva inciso pesantemente sulle
casse dello Stato e sull’economia francese, neppure la voleva. Ma non aveva
rinunciato neanche per un attimo – forte di una visione della politica e della
strategia che appare straordinariamente moderna per la sua capacità di
manipolazione dell’avversario – ad esercitare pressioni sulla monarchia
prussiana, nell’intima consapevolezza che ciò avrebbe potuto indurla a
commettere qualche passo falso. E la dichiarazione di guerra alla Francia fu
sicuramente un errore, poiché offrì a Napoleone, che in fondo non chiedeva
altro, il pretesto per riprendere la sua politica espansionistica in Europa
centrale.
Con suprema insipienza, la
dirigenza prussiana aveva scelto la via della guerra senza nemmeno porsi il
problema di come affrontarla materialmente, tanto che una delle poche lucide
intelligenze militari prussiane in precedenza citate, il generale Gerhard von
Scharnhorst, commentò tale decisione nel modo che segue: «Lo so ben io quello che dovremmo fare [l’uomo aveva un’alta
opinione di sé], ma solo gli dei sanno
quello che faremo». E in realtà non c’era granché da fare con un esercito
abituato a spostamenti di minima entità, gravato da un sistema logistico
pesantissimo e guidato da comandanti che si attenevano alla tradizione
federiciana in forma quasi macchiettistica, priva di contenuti sostanziali.
Contro di loro si ergeva la straordinaria macchina militare della Grande Armée, uno strumento flessibile,
rapido, organizzato in base al sistema del battaillon
carré, che gli consentiva una straordinaria capacità di adattamento, in
tempi stretti, alle più diverse situazioni strategiche e tattiche.
Con premesse di questo genere,
la campagna del 1806 poteva ritenersi segnata fin dall’inizio e tuttavia la
guerra non è un evento che possa essere sottoposto ad una logica razionale e
tanto meno pianificato nei minimi dettagli con la pretesa che poi tutto si
svolga secondo i piani. Al contrario, anche in quell’occasione molte cose non
andarono per il verso giusto e si svolsero in modo del tutto imprevedibile: la
più clamorosa dimostrazione di ciò è rappresentata proprio dal doppio scontro
di Jena e Auerstädt del 14 ottobre 1806, le due battaglie che risolsero il
conflitto. Nella circostanza, infatti, il nucleo principale della Grande Armée (96 mila uomini) ebbe
ragione, sotto la personale guida di Napoleone, di circa 53 mila prussiani a
Jena. Ma ad Auerstädt, a soli 15 chilometri di distanza, il III corpo d’armata,
al comando del maresciallo Louis Davout (il migliore dei subalterni dell’imperatore),
riuscì a sconfiggere da solo il grosso dell’esercito prussiano, con una
vittoria che decise la campagna non meno (e forse più) di quella di Jena.
Il conseguente sfruttamento del
successo rappresenta uno straordinario esempio della “guerra lampo” napoleonica
e di quanto il conflitto fosse mutato dopo la Rivoluzione francese: una
travolgente cavalcata di poche settimane della Grande Armée attraverso la Germania, caratterizzata da non poche
violenze e distruzioni a carico della popolazione civile. Tuttavia, questa
evidente escalation del conflitto
verso gli estremi non poteva avere conseguenze solo sui vincitori, ma ne ebbe
anche sugli sconfitti e sulla loro volontà di resistenza: il debole sovrano
Federico Guglielmo III avrebbe voluto che la Prussia si acconciasse alla pace,
ma la sua consorte, la regina Luisa, e il ministro Hardenberg non vollero
sentire ragioni e decisero di continuare la lotta. Ci vorrà la vittoriosa
campagna del 1807 perché la Francia
napoleonica possa indurre la Prussia a più miti ragioni, con il trattato
di Tilsit.
Pure, un evento rovinoso di tale
entità rappresentò il germe della nuova Prussia e addirittura della futura
Germania. La lezione subita dai francesi era stata troppo dura per non dover
essere analizzata, metabolizzata e fatta fruttificare. Un esercito composto
prevalentemente di mercenari al soldo del sovrano era stato sconfitto da un
esercito per eccellenza nazionale, pieno di coscritti talvolta tutt’altro che
contenti di dover combattere a migliaia di chilometri dalle loro case, ma
animati da un innegabile slancio e sostenuti da un profondo impeto morale.
Tutti elementi di riflessione che non potevano sfuggire a uomini come
Clausewitz, Scharnhorst, Gneisenau ed a quanti avevano a cuore la rinascita
della Prussia. Non a caso, l’esercito nazionale prussiano ebbe un ruolo di
primo piano nella definitiva sconfitta napoleonica già a partire dalla campagna
del 1813 e ancora di più a Waterloo.
Sono tutte vicende che agli
occhi distratti dei contemporanei possono apparire infinitamente lontane e
proprio per questo oziose, prive cioè di influenze sulla realtà. Si tratta di
un errore grave, poiché le questioni cruciali della strategia sono rimaste
essenzialmente le stesse e andrebbero lette con la necessaria cautela. È molto
significativo, ad esempio, che la Grande
Armèe napoleonica della campagna del 1806 fosse un esercito nazionale che
schiacciava un esercito prevalentemente mercenario e che, solo pochi anni dopo,
quella stessa Grande Armata fosse diventata una forza multinazionale priva di
slancio patriottico e destinata prima a soffrire e poi a soccombere di fronte a
nuovi eserciti nazionali, come quello prussiano riformato proprio dopo la
disfatta di Jena.
Ancora più importante è che da
quella disfatta sia scaturita la riflessione clausewitziana sulla guerra come
scontro di forze morali. Un insegnamento di grandissima attualità, che il mondo
occidentale pare aver dimenticato. Animato da una logica imperiale errata e
miope, esso non pare rendersi conto che da tempo sta affidando le sue fortune
ad eserciti professionali che, pur di altissimo livello, hanno competenze e
tecnologie superiori ma slancio inferiore ai loro nemici. Ne consegue che,
quando si procede al computo delle perdite, risultano quasi sempre vincitori,
ma quando si guarda ai risultati ottenuti sotto il profilo politico e
strategico, gli esiti non sono altrettanto convincenti. Quella che sembra
sfuggire, una volta di più, è la dimensione di “scontro di volontà” di
qualsiasi conflitto. Ciò non significa certo perorare un ridicolo ritorno alla
coscrizione obbligatoria, perché il vero problema è tutt’altro, vale a dire
l’importanza, in guerra, delle “forze morali”. A questo può servire un breve
ricordo della campagna di Jena, e non è un ammaestramento da poco. Ancora oggi
siamo in presenza di conflitti in cui sono stati piegati eserciti nemici, ma
non la volontà di combattimento che li ha espressi.
Piero Visani
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