sabato 31 gennaio 2015

Napoleonica - 9

       Il generale Jean-Jacques Desvaux de Saint Maurice (1775-1815), nella rutilante divisa di comandante dell'Artiglieria a Cavallo della Guardia Imperiale napoleonica (dipinto di Stefano Manni)..
      Di nobile famiglia, si distinse nelle guerre della Rivoluzione e dell'Impero come valido comandante d'artiglieria, fino a diventare generale e ad ottenere la nomina a barone dell'Impero.
       Fu ucciso a Waterloo, intorno alle 15.30 del 18 giugno 1815, quando ancora la situazione dell'esercito francese non pareva compromessa. Colpito in pieno da una palla di cannone, morì sul colpo. Aveva solo quarant'anni.

                             Piero Visani



         

venerdì 30 gennaio 2015

Le mura di Derry

       Le mura di Derry.
       Un'estate che sembra tardo autunno.
       La bomba di Omagh appena scoppiata, con il suo tragico carico di morti.
      Mio figlio che cammina accanto a me, che forse percepisce ma ancora non capisce, perché si sta appena affacciando all'adolescenza.
       Vie vuote, povere, persino nella parte centrale - e unionista - della città.
      Atmosfera triste.
       Autocarri dell'esercito britannico che passano e soldati che da bordo ci scrutano, con aria inquisitrice, poiché è palese che non siamo elementi locali.
       Andiamo alle mura e da lì guardiamo il Bogside, Dapprima l'intero quartiere cattolico e poi il famoso murale che segna l'ingresso nella "Free Derry".
       L'esplosione della bomba di Omagh ha complicato la nostra visita alla città. Ci sono  molta agitazione, molta tensione, molti soldati, molti poliziotti. Non ho voglia di coinvolgere un ragazzino in queste cose. C'è sempre tempo per capirle, per conoscerle, e forse in cuor mio vorrei che non le conoscesse e le capisse mai.
       Guardiamo, respiriamo un'aria carica di tensione, che ci ricorderemo a lungo, molto a lungo.
       Una visita più ravvicinata la farò io, da solo, dopo aver lasciato moglie e figlio in albergo. Le sensazioni sono sempre le stesse. Le strade della guerra, delle violenze, dei massacri, si somigliano un po' tutte. Hanno su di sé e dentro di sé una connotazione di dolore. Hanno il senso del tragico, ma mi piacciono proprio per quello. Sento il palpitare della Storia ed è una delle rarissime occasioni in cui mi sento vivo. Non mi piacciono i villaggi vacanze. Quella è una forma di cretinismo ritenuta indolore. Qui si vede invece che cosa producono davvero, le assenze e le fughe, le omissioni da stordimento: ingiustizia, ingiustizia totale.
       Grazie Derry, hai parlato al mio cuore. Non dimenticherò mai le sensazioni, le suggestioni e i turbamenti di quella camminata tra vite residuali e morti a credito. A volte, bastano pochissimi chilometri di strada a capire cose che la lettura di infiniti libri ti ha solo suggerito, ma non chiaramente spiegato.

                                    Piero Visani





mercoledì 28 gennaio 2015

Nel blu dipinto di blu (e di marron...)

       Stanotte ho fatto un sogno, un sogno strano, come in fondo strano sono io.
       Era la notte fra il 18 e il 19 dicembre 1941 e facevo da secondo al comandante Luigi Durand de la Penne, sul suo "maiale". L'obiettivo era quello di penetrare nel porto di Alessandria d'Egitto e affondare una delle corazzate della Mediterranean Fleet britannica.
       Ben presto, però, mi sono reso conto che non c'era tensione o drammaticità, nell'aria, piuttosto un'atmosfera analoga a quella di 1941. Allarme a Hollywood, di Steven Spielberg.
       Non ho avuto il coraggio di dirlo al mio superiore. Mi sono limitato ad eseguire i suoi ordini brevi, secchi, palesemente scanditi all'acquisizione dell'obiettivo. Tuttavia - devo confessarlo - a me pareva di essere immerso in una dimensione ucronica e ho continuato ad osservare tutto con occhio critico.
      In effetti, la costa egiziana pareva troppo illuminata, per una notte di guerra. C'erano troppe cose strane. Ci siamo avvicinati terribilmente alla costa e anche il mio superiore, a quel punto, si è accorto che c'erano molte cose strane. Così ha deciso di avvicinarsi moltissimo alla riva e gli occhi di entrambi si sono fissati su un manifesto pubblicitario molto grande e molto ben illuminato. Lo abbiamo esaminato da vicino:





       Il comandante è rimasto a lungo in silenzio, come se non capisse, come se stesse vedendo qualcosa che non avrebbe mai voluto vedere, ma che forse, nel suo animo, non gli era così totalmente sconosciuto o nuovo. Poi si è scosso dal torpore e mi ha sussurrato: "Noi comunque andiamo avanti. Qualunque cosa succeda, eviteremo di finire così! Facciamogli vedere che cosa sanno fare gli Italiani, se solo li privi di una "classe dirigente" e di un "Alto Comando!"
       Il resto lo conoscete anche voi: 
« ...sei Italiani equipaggiati con materiali di costo irrisorio hanno fatto vacillare l'equilibrio militare nel Mediterraneo a vantaggio dell'Asse. » (Winston Churchill).

Come sapete meglio di me, esiste una notevole distinzione tra una Blue Water Navy e una Brown Water Navy. Della seconda, occorre solo capire a che cosa afferisca quel marron...

                       Piero Visani

martedì 27 gennaio 2015

Confisca esistenziale

       Il peso del totalitarismo si comincia a sentire per gradi. Lo so che nell'immaginario collettivo la visione classica è quella dell'arrivo di migliaia di miliziani che si dedicano ad attività repressive, ma nella realtà non è così.
       Il totalitarismo è semmai una progressiva confisca di spazi di libertà, che un tempo ciascuno di noi occupava a proprio piacimento e che ora gli sono stati espropriati.
      Per qualunque cosa io faccia, c'è qualcuno che pensa per me, che mi dice cosa devo fare e come dovrei farlo, che mi dà consigli di cui non sento il bisogno. Vivo - mi dicono - "nel migliore dei mondi possibili", ma non mi sono mai sentito tanto male come adesso. Nulla è più mio, e non sto parlando di soldi (che non ho mai avuto in misura significativa). Sto parlando di una vita che in fondo, per lunghi periodi, è stata assolutamente mia e che ora mia non è più, sacrificata di fronte a innumerevoli altari, ad idola che non ho mai conosciuto, non conosco e non intendo conoscere.
       E' una confisca esistenziale, quella di cui mi sento vittima. Mi sento deprivato di tutto, persino della capacità di decidere delle mie azioni e, se continuo ad esercitarla, è solo perché non ho alcuna intenzione di mollare.
       Sento "dotti, medici e sapienti" parlare di ciò che mi manca, dei pericoli cui sarei esposto, delle tutele che mi sono state offerte, ma a me manca la vita, il suo sapore. Non ho bisogno di narcotici, io, ma vorrei poter gustare i frutti dell'esistenza, non i surrogati dei medesimi. Vorrei essere vagamente libero, non il meccanismo di un ingranaggio infernale. Vorrei provare qualche gioia residua, ma cosa mi resta?
      Questo totalitarismo un tempo detto "dolce" a me tale proprio non pare. Mi pare solo un modo - perfettamente riuscito - di uccidermi mentre ancora vivo (o fingo di...).
       Non è il massimo attraversare la fase finale della propria esistenza sperimentando tutto questo, avendo chiara consapevolezza che ti è stato tolto tutto, e che nulla tornerà. Mi concedo un ultimo hobby, che certamente non avrò modo di praticare io: coltivare un odio profondo per chi mi (ci...) ha ridotto così e tenerlo ben vivo dentro di me, cercando di insegnarlo e di trasmetterlo a chi abbia voglia di ascoltarmi. Per questo scrivo, soprattutto in privato, con tanto fervore: mi piace pensare di riuscire a dare un mio piccolo contributo alla formazione di chi dovrà - se e quando potrà - vendicare la confisca esistenziale di cui sono stato oggetto. La vendetta è un sentimento che mi supporta nei momenti più bui. Non porta da nessuna parte, non offre vantaggi particolari. Porta in un unico posto, quello in cui voglio esserci: il posto della vendetta. Non ho nulla da perdere e nulla - ovviamente - da guadagnare. Punto solo al "soffrirete anche voi!". Sorrido già adesso, in perfetta solitudine, al solo pensarci. Il mio personale motto è sempre stato Nemo me impune lacessit. So bene che non è e non sarà così, però il solo cercare di coltivarlo è un fuoco interiore che non solo mi fa stare in piedi, ma mi riempie di feroce passione.

                            Piero Visani



lunedì 26 gennaio 2015

Che la morte sia con voi!

       Sono sempre più convinto che l'unica vera linea divisoria esistente in Europa sia quella tra produttori e percettori. Il peso vorace dei secondi, infatti, ha messo in fuga i primi, i quali cercano rifugio in quelle parti del mondo dove produrre non è ancora diventato un'offesa.
       Nei "paradisi" della percezione fiscale, per contro, una schiera di "ottimati" autodesignatisi tali è impegnata in un gigantesco spostamento di ricchezze dai molti ai pochi, pochissimi, e questo mutamento ha luogo sotto la copertura di una politica collettivistica che in realtà altro non è che un gigantesco esproprio, il più grande storicamente mai realizzato. Si potrebbe definirlo "esproprio di Stato", ma lo Stato non esiste più da tempo, è solo il fragile velo dietro il quale si celano organizzazioni private e privatistiche con crescenti finalità di rapina.
       Con queste premesse, anche la pressione fiscale altro non è che un tentativo di legittimazione (agli occhi dei più stolti, che non mancano mai...) di macroscopiche politiche di rapina, intese soltanto a trasferire ricchezze dalle tasche di molti a quelle di pochi.
       Facciamo un esempio concreto, a cavallo tra realtà e dabbenaggine: chi in Italia avrebbe il coraggio di sostenere - senza essere preso a calci nel sedere - che la pressione fiscale serve a fornire servizi alla collettività e non a rimpinguare una casta, i suoi clienti e i "cani da guardia" di entrambe, i "volonterosi carnefici" che, per poco più di mille euro al mese, barattano la loro dignità in cambio di una microscopica fettina di torta del mostruoso Moloch statalista, avendo in cambio - come garanzia, che a loro non dispiace affatto... - che non saranno mai licenziati, sia che lavorino sia che no. 
       In realtà, da noi (e non solo da noi), la pressione fiscale serve a mantenere in piedi ancora per un po' un sistema che è morto, che ci ha precipitato nei bassifondi delle classifiche mondiali e che ci ha trasformati in un ospizio a cielo aperto, da cui ogni giorno partono funerali, di vite e ancor più di speranze.

       Se qualcuna delle nostre classi dirigenti ci avesse mai vagamente amato, invece che disprezzato; se il "clero" culturale fosse stato composto da pensatori veri, e non da prezzolati corifei, qualcuno avrebbe avuto il coraggio di dire agli Europei che la vita è una selvaggia lotta, piena di crudeltà e di nefandezze, e che solo combattendola si può sperare di uscirne vivi. Così invece ne usciremo tranquilli ma MORTI, con una pensioncina che sarà sempre più insufficiente (non essendo la pensione di Amato o di soggetti analoghi...) a garantirci la sopravvivenza. Quanto alla vita, alla speranza e al futuro, quelli sono persi da tempo.

       Che la morte sia con voi! 

                                               Piero Visani




domenica 25 gennaio 2015

Libri di culto

       Ci sono almeno tre libri che hanno segnato la mia infanzia e la mia adolescenza.
       Nell'infanzia, essendo stato io un lettore precocissimo e onnivoro, il romanzo Passaggio a Nord Ovest, di Kenneth Roberts e il relativo film di King Widor. Fu su quelle pagine e su quelle immagini che cominciai ad amare la Guerra Franco-Indiana (1755-1763).
       Nell'adolescenza, il capolavoro di Raimondo Luraghi, Storia della Guerra Civile americana e il meno noto ma stupendo libro di Henry Lachouque, Napoléon et la Garde Impériale (essendo nato ad Aosta, ho avuto dimestichezza con il francese fin da bambino).
       Ne sono nati tre amori, che durano tuttora, e che mi hanno portato su molti campi di battaglia, a inseguire le mie passioni, a conoscere da vicinissimo quei conflitti.
       Ho sempre inseguito passioni, è l'unica cosa per cui valga realmente la pena di vivere. Sognavo di diventare un guerriero. Mi sono fermato in tempo, sui bordi del sogno, quando un mentore cui devo molto mi spiegò che, al più, sarei diventato un soldato. Ho preferito astenermi...

                                            Piero Visani


           

sabato 24 gennaio 2015

A futura memoria

       Lo scrivo a futura memoria, nel caso qualcuno ancora non se ne fosse accorto: non sono disponibile a lasciar mettere in discussione, in alcun modo, la mia onorabilità, il mio amore per la verità, il mio rifiuto per qualsiasi forma di menzogna, la mia indisponibilità ad essere oggetto di mercatura, il mio rifiuto di essere trattato come una banderuola o un taxi.
       Lecito dubitare della veridicità di questa affermazione, ovviamente, ma facendosi carico dei relativi costi.

                               Piero Visani



Accelerazione

       Quanto ti vengono rovesciate addosso certe frasi, relative a natura e contenuti di rapporti, se sei un po' avanti con gli anni, hai un minimo di esperienza e ti sei già gagliardamente addestrato nel ruolo di pompiere, capisci che è giunta la tua ora e che è inutile perdere altro tempo a farti massacrare.
       Come diceva Freddy Mercury in "We are the champions", "I've done my sentence, but committed no crime". Tuttavia, la sentenza c'è e allora meglio risparmiarsi le inutili noiosaggini delle dipartite. E' stata pronunciata una sentenza, è stato individuato un colpevole e le motivazioni che lo rendono tale. La sentenza dice che sono io. Ok, prendo atto.
       Non ho intenzione di rimanere ostaggio di nulla e nessuno. Io sono solito profondere tutte le mie energie per dare bellezza alle cose. Se non basta, se non basta mai, se ci sono ostacoli sempre nuovi, meglio prenderne atto. Non c'è persona più sostituibile di me, anche perché di sentenze senza appello (che peraltro non intendo certo presentare), di condanne a priori e di prese in giro gigantesche ho una certa esperienza. Un'esperienza che serve a contenere i danni e a voltare pagina. Detesto le valutazioni affrettate, i fulmini a ciel sereno, i sorrisi che si trasformano facilmente in smorfie di fastidio. Ma soprattutto detesto le prese in giro e temo di avere una "naturale" predisposizione a prenderne. Quella, quella sì, è tutta e solo colpa mia.

                          Piero Visani




La valigia dell'attore

       Per quanto possa risultare sgradevole, mettersi a preparare, una volta ancora, la valigia dell'attore ha un suo innegabile fascino. Finisce una scrittura e, siccome si tratta di un mestiere assolutamente provvisorio e privo di garanzie, occorre cercarsene un'altra.
       Mentre si mettono insieme i propri scarsi - ma eleganti - bagagli, il pensiero corre un po' all'indietro e un po' in avanti. Si è fatta la propria parte, in teatri assolutamente di buon livello, ma nessuna scrittura, ovviamente, è eterna, e molte altre durano davvero poco: lo spazio di una stagione, talvolta anche meno; dunque di che lamentarsi?
       Il teatrante - sia esso guitto o mattatore - conosce questo senso di provvisorietà, che in fondo gli è consustanziale. Non si fa illusioni su niente, ma ama il mestiere, la recitazione, la possibilità di essere "uno, nessuno e centomila". Forse il mattatore ambirebbe ad essere uno, ma giustamente, quando gli viene ricordato che è nessuno, o comunque centomila, si sovviene che la variabilità del giudizio è tipica di tutti i capicomici e talvolta deriva da fattori che il mattatore non è proprio in grado di controllare, perché gli vengono attribuiti, ma non sono suoi propri., anche se può avere cercato - invano - di dimostrarlo.
       E allora, a scrittura finita, dignità e orgoglio - che al mattatore non mancano - gli impongono di raccogliere le sue poche cose e mettersi alla ricerca di nuove scritture. Sa bene che non lascerà grande traccia di sé, ma è pure consapevole di averci provato e quella consapevolezza lo conforta, lo rende fiducioso, gli fa guardare con speranza al futuro.
      Non è un grande attore, altrimenti i capocomici se lo contenderebbero. E' un modesto mestierante, ma ha la passione del teatro nel cuore e sa che spesso questa non è condivisa proprio da quei capocomici che pure dovrebbero farsene promotori. Ed è la passione per il teatro che l'ha tenuto su piazza per decenni, non certo i soldi (pochi) o le soddisfazioni (zero). Ma una passione è una passione: se non la si trova in un teatro, la si cercherà altrove, magari nella più fetida delle province, là dove lo squallore possa affrancare dai processi alle intenzioni e dai repentini cambiamenti di umore. La passione è una fede, è quello che la illumina.

                           Piero Visani





Fare "San Martino"

       La tradizione sabauda vuole che, in occasione della battaglia di Solferino e San Martino (24 giugno 1859), il re Vittorio Emanuele II, per incitare le truppe che non riuscivano a impadronirsi delle alture di San Martino, abbia urlato questa frase:

: «Fioeui, ò i pioma San Martin ò i'aoti an fan fé San Martin a noi!» (Figlioli, o prendiamo San Martino, o i nostri avversari ci obbligheranno a "fare San Martino"). Com'è noto, i Savoia avevano grande dimestichezza con il dialetto piemontese, forse più che con il francese e l'italiano, e in ogni caso, nel rivolgersi ai suoi soldati, il sovrano non poteva certo usare un linguaggio paludato. Così - se la storia è vera - fece riferimento, in dialetto, a una cosa che tutti i contadini dell'epoca sapevano, vale a dire che il giorno di San Martino, nel regno sabaudo, scadevano i contratti di mezzadria e i contadini correvano il rischio di dover cambiare cascina. Riferita alla situazione del momento, con le truppe sarde in difficoltà a conquistare l'abitato di San Martino, essa equivaleva a dire: "o sloggiamo gli austriaci da lassù, o saranno loro a far fare il trasloco a noi"!

         Aggiorno questo articoletto, nella ricorrenza della battaglia di Solferino e San Martino (24 giugno 1859), che portò a compimento la Seconda Guerra d'Indipendenza e consenti al Regno di Sardegna di annettere la Lombardia e di gettare le basi per la creazione del Regno d'Italia, in vista della terribile accelerazione dell'anno successivo, il 1860.

             Anche se oggi non mi sento più italiano, ma convintamente apolide, sono stato un nazionalista e un patriota. Come tutti gli amanti traditi, credo ancora nell'amore, ma non in chi mi ha tradito.

                  Piero Visani



Credibilità e rispetto

       Quando una persona è priva della prima, ovviamente non può avere il secondo. E' normale ed è giusto che sia così, perché d'abitudine non si rispetta chi non è credibile.
       Se poi tutta l'energia profusa per crearsi non solo credibilità, ma infinite altre cose, non si rivela sufficiente, non resta che prenderne atto. In un periodo di difficoltà estreme come quello attuale, tutto ciò che va ulteriormente a gravare sulle nostre vite sfibrate ha un esito distruttivo, perché senza credibilità, senza rispetto, senza fiducia, senza voglia di sorridere per gettare un guanto di sfida sulla faccia di tempi iniqui non si va da nessuna parte, ma unicamente al solipsismo. Esito assolutamente rispettabile, ma, per l'appunto, da giocarsi individualmente.
      Ogni individuo, anche il più digiuno di questioni diplomatiche, sa che, dove esso è persona non grata, è inutile restare "a dispetto dei santi". Ciascuno fa i propri investimenti esistenziali e le proprie scelte. Non ci sono responsabilità, solo un minimo di orgoglio.
       I tempi sono difficilissimi, tristi e agri. Aggiungere sofferenza a sofferenza non ha senso alcuno. O si è immersi in una creativa Lustigkeit, che contribuisca ad alleviare a tutti le fatiche del vivere, aggirandole con la ricerca della felicità, oppure di "modelli di tristezza" non abbiamo che l'imbarazzo della scelta, con tutto il loro caravanserraglio di Assoluti. Scelgo consapevolmente il carpe diem, perché non penso assolutamente di avere un futuro, né brutto né bello. Sono già morto, da chissà quanto tempo, o forse non sono mai nato. Mi manca solo l'obituary e quello chiederei cortesemente che mi venisse risparmiato: non c'è niente di più osceno che vedersi sputare addosso in vita e diventare santo da morto.

                    Piero Visani



Best before...

       Pensieri.
       Un po' di nervosismi, frutto di cause diverse, ma tutte gestibili, volendo.
      Tuttavia piano piano, in fondo all'anima, comincia potentemente a lievitare la mia indole futurista, libera, insofferente, non perbenista. Quell'indole che in vita mia mi ha sempre indotto a fare "mattane" e a non sottopormi in eterno a defatiganti mediazioni.
       Il bello delle cose è quando sono selvagge, naturali, vive, vere. L'istituzionalizzazione delle medesime è legittima, ma è morte differita; meglio: anticipata. E altrettanto lo sono i calcoli, le valutazioni, le riflessioni, al posto di uno stupendo carpe diem e di un meraviglioso hic et nunc immerso nei fuochi della passione.
       Poi c'è l'orgoglio, e quella è una spinta poderosa. Si è soliti infatti dire che gli esami non finiscono mai, e posso concordare, ma devo altresì dire che la soluzione a me più cara è - evolianamente - quella di arrivare nei pressi della laurea con lode e decidere di abbandonare gli studi. Detesto infatti essere sottoposto ad esami, siano essi universitari, clinici o quant'altro. E non amo per nulla che venga messa in dubbio la mia buona fede, che è una delle pochissime ricchezze su cui posso contare con assoluta certezza. Chi mi conosce davvero, del resto, lo sa: ho milioni di difetti, ma sono assolutamente onesto, con gli altri e anche con me stesso.
       Come dice un amico che mi conosce bene, con cui condivido quarant'anni di percorsi comuni, io sono un classico "Best before...", un soggetto a scadenza, proprio come un alimento arrivato a data di esaurimento del possibile consumo.
       Ne sono consapevole, esattamente come ne è consapevole lui, e spesso ci abbiamo scherzato su insieme Non ne faccio drammi. Tutti possiamo essere messi in discussione, io più di tutti. Non fa piacere, ma succede. Come dice il nostro "beneamato" premier Renzi, me ne farò una ragione. Conosco la strada, la conosco bene. Non ho nulla da spiegare e nulla di cui dolermi. Sono un uomo d'onore, io.

                       Piero Visani



venerdì 23 gennaio 2015

Ciclotimia

       Accusato in passato di ciclotimia, per di più da soggetto che ne era sicuramente affetta (e in maniera non propriamente trascurabile...), ho sempre sorriso pensando a tale contestazione, che già nel momento in cui fu formulata mi divertì per la sua totale infondatezza, indice di preoccupante superficialità.
        In realtà, nella mia mente sono continuamente in atto valutazioni di varia natura, ciascuna con i propri risvolti, alle quali ipotizzo di potermi eventualmente attenere. Di conseguenza, nel mio cervello si svolgono di continuo wargames, relativi alle varie opzioni sul tappeto, che sottopongo continuamente a verifica. Nella mia mente è sempre tutto chiaro quello che devo fare, ma mi va di verificare a ciclo continuo i "pro" e i "contro", anche perché - e questo è innegabile - sono nervoso, irritabile e incline alla noia.
         Tuttavia, definire questo ciclotimia è davvero frutto di una disamina superficiale. Semmai, è analisi tattica e strategica, per garantirmi la migliore operatività possibile, nelle condizioni di massima lucidità. In combattimento, infatti, occorre avere pronte tutte le opzioni disponibili.

                        Piero Visani




  

Hidalgo

       Un amico - con toni bonari ma intenti assai critici, suppongo - mi dice che sono più "hidalgo" del capitano Alatriste. Vorrei baciarlo, ma i codici dell'amicizia virile non lo prevedono. Allora lo ringrazio per avermi dato una pura gioia in giorni non propriamente esaltanti. Non sono sicuro che comprenda davvero, ma capisco io, e mi basta. Come sempre, mi basta.
       Adoro i giudizi negativi, hanno il pregio di collocarti subito dove intendono farti stare. I giudizi positivi, per contro, creano qualche illusione. Ed è meglio non averne.

              Piero Visani




Il califfo

       Aveva ragione "il Califfo", e non era neppure quello dell'Isis: "Tutto il resto è noia".

                     Piero Visani




E non c'è niente da capire

       Ho passato lunghi periodi della mia esistenza a cercare di capire. Di capire il perché e il per come di ogni cosa, analizzando e sceverando tutto, alla ricerca di una ratio che mi aiutasse a comprendere cose, eventi, persone, teorie.
       A un certo punto della mia vita, direi intorno ai sessant'anni, ci ho rinunciato, quasi di colpo, valutando l'assoluta inutilità di tale comportamento, e le sofferenze che mi produceva. Ora continuo a farlo, almeno in parte, ma in una prospettiva personalissima - direi quasi intimistica - e senza alcuna speranza di poter capire più niente. Non mi è venuto meno il desiderio di capire, mi è venuta meno la voglia di cercare di farlo, poiché espone a tutti i venti e le procelle.
       Ho capito me e mi sono reso conto che è già uno straordinario successo, direi enorme, tutto considerato. E vivo in forma interiorizzata e autoreferenziale. Ho molto da dirmi, poco da dire, speranze zero, prospettive un po' meno di zero. Credo che scriverò sempre di più. Mi piace parlarmi, dialogare con me stesso. Mi sono simpatico, direi molto. E' stata la mia stella polare. Non volevo niente dal mondo, e niente ho avuto. Siamo pari.

                         Piero Visani



Lavorare (non) stanca...

       Quando si ha l'opportunità di svolgere un'attività professionale, il lavoro non stanca o comunque stanca molto meno di quello che di norma accade essendo un dipendente. Esiste infatti una motivazione individuale che è molto maggiore.
       Ma lavorare per sé ha anche ulteriori valenze, una delle più importanti delle quali è che lavorando, impegnandosi, si dimentica e non ci si annoia. E, per quanto mi concerne personalmente, l'oblio e la reazione alla noia sono motivazioni innegabilmente forti.
          Dopo tutto, ho solo bisogno di due stimoli, per essere relativamente felice: dimenticare chi sono (dimenticarlo del tutto e in via definitiva) e non affondare nella noia esistenziale (visto che la mia natura è iperattiva). Non è per nulla facile, ma ci provo.

                 Piero Visani




                

Caro diario

       Un diario non è un blog. E' qualcosa di molto intimo che condivido con me stesso da quando avevo una ventina di anni. All'epoca (inizio anni Settanta), non esistevano né computer, né smartphone, né social network, dunque non c'era un'eventuale contrapposizione tra ciò che si poteva manifestare in pubblico, anche a livello personale, e quello che si diceva o si scriveva in privato.
       Ho mantenuto questa distinzione anche dopo la mia decisione - invero tardiva - di creare un blog e successivamente di approdare su Facebook. Così facendo, mi sono consapevolmente lasciato una dimensione privatissima, dove parlo con me, e solo con me, e nulla di tutto ciò che viene pubblicato sui social network compare, anche se talvolta si può determinare un'osmosi tra le cose che scrivo in pubblico e quelle che scrivo in privato. Un'osmosi, tuttavia, non è mai troppo rivelatrice; o meglio: lo è di ciò che si intende rivelare, non del resto...
       Al diario sono affezionato, molto. Serve a parlare con se stessi ed è quello che è utile fare il più spesso possibile, quello che aiuta di più ad andare avanti, a capire e a capirsi. Non lo scrivo con regolarità, ma quando ne ho voglia e/o ne sento la necessità. 
      Non è un diario particolarmente allegro, ma io per primo l'avrei voluto diverso. Però è mio, solo mio, ed essendo io di natura egosintonica, rappresenta una lettura forse non piacevole, ma confortante e perfino stimolante. Scriverlo non è divertente, molto spesso, ma è liberatorio. Leggerlo è esplicativo, chiarificatore e - se lo si legge in un'ottica egosintonica - trasmette forza, lucidità, calma e grande voglia di affrontare positivamente il futuro, anche solo per gusto di sfida.
      Non l'ho mai fatto vedere ad alcuno e mi atterrò per sempre a questa regola. Se non morirò d'improvviso, provvederò a distruggerlo o a pubblicarlo per tempo. Nel frattempo resta ben nascosto.

                    Piero Visani


         

giovedì 22 gennaio 2015

Aforismi nietzscheani - 5

       Scrive il mio amatissimo Friedrich Nietzsche: "La filosofia nel senso in cui finora l'ho interpretata e vissuta io, è libera vita tra i ghiacci, in alta montagna, è la ricerca di tutto ciò che vi è di strano e di enigmatico nell'esistenza, di tutto ciò che finora era inibito dalla morale" (Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è"; la sottolineatura è mia).
       Questa è la ragione per cui, ogni volta che incontro qualche forma di morale (o, peggio, di "moralina"...), preferisco allontanarmi in direzione "di tutto ciò che finora era inibito dalla morale".
       E' un "dover essere", nonché un prezioso antidoto contro la noia esistenziale.

                         Piero Visani





                          

Linguaggi settoriali

       Siccome ho un carattere un po' particolare, che tende all'arroccamento ma anche all'autoironia, stamane mi sono svegliato con due termini commerciali specifici, che mi vagavano nella mente: "liquidazione fallimentare" e "saldi di fine stagione". Ho cominciato a ridere, tra me e me, e non ho ancora cessato del tutto di farlo.
       Ho una singolare peculiarità: tendo a risorgere facilmente dalle mie ceneri, a fare abbuffate di vita quanto più mi si vuole morto (metaforicamente e no) e ad attingere agli aspetti più sgradevoli del mio carattere quando più li si va a sollecitare.
       Ovviamente non intendo fare il miles gloriosus: soccombo spesso, ma lottando. Inoltre ho una peculiarità poco diffusa, ma che mi aiuta molto: vedo il grottesco là dove altri vedono cose serie e, superato lo sconcerto iniziale per questa difformità di visuale, mi apro al sorriso (e anche al riso) là dove altri vedono "drammi". La vita è talvolta sogno, quasi sempre incubo, talvolta farsa. Riesco a cogliere alla perfezione le tre dimensioni, soprattutto la terza.

                         Piero Visani



L'incomunicabilità

       Ho deciso, mi guarderò un ciclo completo di film di Michelangelo Antonioni. E' da vedere se risolverò o aggraverò il mio problema di incomunicabilità, e tuttavia potrò dire che ci ho provato...
       Ogni esperienza di vita che faccio incoccia sempre in questo problema, in genere in forma piuttosto seria e la cosa - devo dire - più che preoccuparmi ormai mi condiziona, peraltro non da oggi.
       Ho certamente le mie responsabilità, eppure credo che non siano solo mie. In dicembre, ho pubblicato un mio piccolo contributo in un libro collettaneo curato dall'amico Sandro Giovannini per le Edizioni Heliopolis e intitolato Non aver paura di dire. In esso, ho scritto: "io non ho paura di dire, ma l'esatto contrario: io ritengo che sia del tutto inutile farlo. La mia esperienza di vita, infatti, mi dimostra che tutto ciò che dico o è inutile o è sgradito al punto da risultare altamente disturbante".
        Giorno dopo giorno, mi sto accorgendo a mie spese della assoluta inutilità del mio dire e, giunto a questo punto, penso che accentuerò l'unica forma di comunicazione bilaterale che mi rimane: quella tra me e me. Ho notato che questa tipologia di comunicazione è l'unica che funzioni, per me. Le persone mi leggono, approvano o disapprovano quanto scrivo, e tutto finisce lì, senza che abbiano bisogno di interagire con me, che a quanto pare è un'esperienza devastante.
       Nessuna comunicazione bilaterale con gli altri, dunque. Così ci capiamo perfettamente, e non suscito reazioni revulsive troppo gravi. Non è il massimo, probabilmente, ma è quello che mi resta ed è giusto che io ne prenda atto. Lo faccio volentieri, almeno fino a quando - magari molto presto - non mi tornerà la voglia di andare a smentire l'assunto. Dopo tutto, sono ferocemente tenace.

                        Piero Visani




mercoledì 21 gennaio 2015

La melassa

       Ho un grande amico e un poderoso sostenitore: il sarcasmo. Quello mi salverà per sempre dalla melassa. La melassa è sodomita; il sarcasmo, invece, è uno "scopator cortese" (o quasi).

                                         Piero Visani



Aforismi nietzscheani - 4

       Ci sono situazioni in cui, per cercare di non restare sommersi, occorre fare riferimento a qualche modello culturale e comportamentale preciso. Niente di più opportuno, in circostanze del genere, che attingere idealmente ai propri maestri, ad esempio a Friedrich Nietzsche e al suo celeberrimo "tutto ciò che non mi uccide mi rende più forte". E' esattamente così.

                            Piero Visani




Blog "Sympathy for the Devil" - Classifica dei post più letti (21 Dicembre 2014 - 20 Gennaio 2015)

        Il periodo in esame ha rappresentato una fase di profonda trasformazione del blog. A partire dai primi di gennaio, infatti, a seguito degli eventi terroristici di Parigi, si è determinato un grande incremento delle visualizzazioni dei post sul blog, che ha portato a notevoli mutamenti nella classifica generale:
  1. It's just like starting over, 568 (=) - 11/12/2012
  2. Non, je ne regrette rien, 207 (+6) - 29/12/2012
  3. Un'evidente discrasia (in margine ai fatti di Parigi), 184 (+184) - 8/1/2015
  4. Quantum mutatus ab illo!, 163 (=) - 20/05/2013
  5. Elogio funebre del generale August-Wilhelm von Lignitz, 115 (=) - 29/01/2014
  6. Tamburi lontani, 113 (+113) - 9/1/2015
  7. Umberto Visani, "Ubique", 100 (=) - 19/04/2013
  8. Gli aggiustamenti "borghesi", 96 (=) - 05/02/2014
  9. La rivolta di Pasqua (Dublino, 1916), 90 (=) - 31/03/2013
  10. Le donne accoglienti, 89 (+2) - 15/03/2013
  11. La verità è sempre rivoluzionaria, 81 (+3) - 21/03/2013.
        Come già accennato, i due principali post dedicati ai luttuosi eventi di Parigi hanno totalizzato quasi 300 visualizzazioni, mentre altrettanti record di lettura su base mensile (o anche meno) sono stati realizzati da American Sniper (78), Essere soldati - Dialogo con Marco Valle (73), I mille volti della pietà (69) e L'amore bugiardo - Gone Girl (65).
       La principale conseguenza di questa autentica "esplosione" è che due post si sono collocati nei primi 6 posti della classifica generale, contribuendo in modo significativo a ridisegnarla.    
        Anche relativamente al numero totale di pagine lette, siamo arrivati a circa 46.440, su un totale di 1.548 post, dunque esattamente 30 visualizzazioni in media a post.
        In definitiva, un mese di grandi soddisfazioni per questo blog, con molti post che hanno avuto un numero di visualizzazioni assolutamente superiore alla media. Non ci resta che sperare di continuare così.    

                             Piero Visani



martedì 20 gennaio 2015

Colonne sonore - "American Hustle" 1

       Ieri sera, guardando "American Hustle", mi è piaciuta più la colonna sonora - estremamente evocativa - che il film. Confesso che amo tutte le forme di rappresentazione in cui alla colonna sonora è affidata una funzione di coro, di commento e sottolineatura delle immagini, di prosecuzione per via musicale (ma anche testuale, perché molto spesso i testi delle canzoni sono fondamentali alla continuazione e al tempo stesso alla dilatazione della narrazione) del "mainstream" filmico. La scena dove Elton John canta un superclassico come "Goodbye Yellow Brick Road" ne è un plastico esempio: stupenda l'interazione tra la vicenda principale e la colonna sonora.
       Se avete visto il film o se lo state vedendo e conoscete il testo della canzone, scritto da un grande autore come Bernie Taupin, l'interazione vi apparirà immediata ed estremamente convincente.

                                                         Piero Visani

LOVE this song! yaaaay! over 100,000 views :) At least one of my videos made it this far.
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lunedì 19 gennaio 2015

Questa è la mia vita

       Sono sempre stato un Johnny Reb, fin dai tempi in cui, alle medie, mi rifiutai di assistere alla messa pasquale, non essendo mai stato interessato alla religione e tanto meno al cristianesimo.
       La mia natura ribelle mi ha procurato qualche problema, ma oggi, a 64 anni, credo di non aver fatto proprio nulla di sbagliato nell'aver sempre cercato di ragionare con la mia testa, non con quella di altri. Naturalmente la cosa mi ha reso oggetto di non pochi strali, ma oggi la dimensione individuale della mia vita è l'unica che mi sento di salvare, nel mio personale bilancio esistenziale. E' quella che mi ha dato quel poco di felicità di cui ho potuto godere nel mio dolorosissimo passaggio su questa Terra.
       Così, quando oggi leggo di inviti alla virtù, di ritrovamenti di fede, di monoteismi ormai morti che cercano di ridestarsi a nuova vita di fronte a monoteismi che godono invece di ottima salute, non posso che sentirmi il più distante che mai da queste prese di posizione.
       Resto volontariamente un maverick e ho perso qualsiasi fede in qualunque forma di vita collettiva, perché tutte le forme di vita collettiva sono a mio giudizio basate sulla menzogna e la creduloneria di soggetti che a me paiono ottusi. Il mio unico impegno politico rimane fortemente legato alla libertà individuale. Tutto il resto ha cessato di interessarmi da tempo. Se questo è anarchismo, viva l'anarchismo!
      Ho passato una parte della mia vita dentro le istituzioni, un'altra a rimanere coinvolto in iniziative politico-culturali di cui non sta a me valutare la validità, ma sostanzialmente non credo più a niente, perché ho sentito troppe menzogne. Ho le mie idee, ovvio, ma sono personalissime e le espongo con un esplicito invito a "sputarmi addosso", invito che talvolta qualcuno prende alla lettera, o quasi, ma per me va bene ugualmente.
       Come sempre in periodi di anteguerra, vedo in atto mobilitazioni. Avrei molto da obiettare, ma non dico nulla. Non combatterò nessuna battaglia per quello schifo definito Occidente. Non mi schiererò per nessuna riconquista del "sacro", perché i valori che non sono nel cuore degli uomini, intesi come ricerca individuale di ogni singolo uomo, non come frutto di persuasione manifesta od occulta, non mi riguardano. Resterò elitario, come sono sempre stato per inclinazione naturale; resterò individualista, per le medesime ragioni. Continuerò a battermi per il "cosiddetto Male", soprattutto perché chiunque, dopo aver visto in azione e sentito parlare il "cosiddetto Bene", non può - ritengo - che comportarsi come me.
       Cercherò le mie personali vie di fuga e, là dove mi sarà additata la via della virtù, cercherò la via del mio piacere personale, come unica guida. Se in essa rientrerà la virtù, sarò virtuoso. Se - come credo e spero - non vi rientrerà, sarò giudicato "vizioso". Se quello sarà il giudizio del mondo, ne andrò straordinariamente fiero. Mi basterà essere diverso da esso.

                                       Piero Visani



domenica 18 gennaio 2015

La mia droga si chiama Julie

        Questo film di Truffaut (e la vicenda in esso raccontata) è stato accostato a me un discreto numero di volte, specie da signore che conoscevano - più o meno vagamente - certe premesse (e promesse...). Rispetto il loro parere, ma ritengo che si sbagliassero e si sbaglino. Aggiungo tuttavia che - nel caso non si fossero sbagliate - con il tempo ci si disintossica comunque da tutto e che nulla - se solo lo si vuole - crea dipendenza.
       Da convinto fautore dell' "Oltreuomo" nietzscheano, da tale eventuale dipendenza mi sono da tempo liberato e ho ripreso convintamente a cercare di dare un senso alle mie "strade perdute", con risultati assolutamente incoraggianti.

                    Piero Visani




sabato 17 gennaio 2015

Robert Edward Lee

       Esattamente 208 anni fa, il 19 gennaio del 1807 (dunque poco prima della battaglia napoleonica di Eylau, che è dell'8 febbraio di quello stesso anno), nasceva a Stratford Hall, in Virginia, Robert Edward Lee, l'uomo destinato a diventare l'autentico "padre della Patria" della Confederazione sudista, il comandante militare la cui memoria è ancora oggi straordinariamente viva in tutto il Sud degli Stati Uniti.
       Figlio di una delle più eminenti famiglie della Virginia, non ebbe un'infanzia facile a causa dei rovesci finanziari del padre e della sua prematura scomparsa, Grazie alle relazioni familiari, tuttavia, nel 1824 egli venne ammesso all'Accademia militare di West Point, dove, a causa del gran numero di ammessi di quell'anno, poté iniziare i corsi solo l'anno successivo. Nel giugno del 1829 ottenne la nomina a sottotenente nel corpo del Genio, classificandosi al secondo posto nella graduatoria dei licenziati del suo corso.
       Nel giugno del 1831, quando era già un giovane ufficiale di carriera, si sposò con Mary Custis, che conosceva fin dai tempi dell'infanzia. Da questa unione, non propriamente felice, nacquero sette figli, tre maschi e quattro femmine.
        Lee compì le sue prime esperienze belliche durante la guerra con il Messico del 1846-48, cui egli partecipò come membro dello Stato Maggiore del generale Winfield Scott. Nel corso della brillante avanzata statunitense da Veracruz verso Città del Messico, egli si distinse per il suo colpo d'occhio nel valutare il terreno e le situazioni tattiche. Durante quel conflitto, inoltre, egli ebbe modo di conoscere e apprezzare le qualità di colui che sarebbe diventato, nella Guerra Civile, il suo formidabile avversario, Ulysses Simpson Grant.
       Nel 1852, Lee venne nominato sovrintendente dell'Accademia di West Point, incarico che non lo entusiasmò, ma che svolse con la consueta dedizione. Tuttavia, fu un gran sollievo per lui ottenere, nel 1855, la nomina a vicecomandante di un reggimento di cavalleria, in quanto una scelta del genere significava passare a un servizio attivo, che era quanto desiderava. Destinato in Texas, si trovò impegnato in varie scaramucce contro gli Apache e i Comanche.
       Nel 1857, la morte del suocero, Parke Custis, lo fece assurgere al ruolo di esecutore testamentario del medesimo e in particolare della disposizione per cui avrebbe dovuto emancipare i suoi schiavi entro un periodo di cinque anni. Per assolvere a tale gravoso incarico, Lee dovette prendere un'aspettativa di due anni dall'Esercito, ma alla fine diede pieno corso ai voleri del suocero.
       In quanto figlio di uno Stato come la Virginia, situata nella parte più settentrionale del Sud, Lee aveva una concezione dello schiavismo che era più blanda di quella di molti suoi contemporanei sudisti, in quanto la progressiva industrializzazione della Virginia stava portando alla costante diminuzione delle piantagioni e, con esse, alla sparizione delle più deplorevoli forme di schiavismo, che ancora permanevano negli Stati più meridionali e maggiormente legati al commercio del cotone.
       Quando un acceso abolizionista come John Brown, insieme a una ventina di sodali, assunse il controllo dell'arsenale federale di Harper's Ferry, nell'ottobre del 1859, nella speranza di accendere nel Sud una rivolta degli schiavi, Lee venne incaricato dal presidente James Buchanan di reprimere il tentativo sedizioso, compito che egli assolse rapidamente.
        Nel 1861, nelle fasi iniziali della Guerra Civile, dopo la secessione del Texas (dove Lee era in servizio) dall'Unione (febbraio 1861), egli ritornò a Washington, dove il nuovo presidente - Abramo Lincoln - lo nominò comandante del 1° Reggimento di Cavalleria. Tre settimane dopo, gli venne offerto - dal consigliere presidenziale Francis P. Blair - il grado di generale nell'Esercito dell'Unione, che si stava ampliando rapidamente in previsione di un conflitto, ma egli rifiutò. Lee non era infatti favorevole alla secessione, ma non aveva alcuna intenzione di prendere le armi contro il suo Stato d'origine, la Virginia. Questa decisione - rimasta sempre oggetto di perplessità - chiarisce invece molto bene uno degli aspetti fondamentali (e sempre sottovalutati) della Guerra Civile: la questione dei diritti degli Stati. In effetti, se l'Unione era stata concepita, fin dai tempi della Rivoluzione americana, come uno stato federale, dunque frutto di un patto (foedus) tra Stati diversi, pretendere la dissoluzione di quel patto non aveva nulla di illegittimo, se alcuni Stati ritenevano che ne fossero venute meno le ragioni. E quegli Stati erano quelli del Sud, che dal permanere nell'Unione vedevano gravemente violati i loro diritti e i loro interessi politici ed economici.
       Lee rassegnò le sue dimissioni dall'U.S. Army il 20 aprile 1861 e tre giorni dopo assunse il comando delle forze dello Stato della Virginia. Gli inizi della sua attività militare come generale confederato non furono particolarmente brillanti e suscitarono non poche critiche nella stampa sudista, Tuttavia, egli venne comunque nominato consigliere militare del Presidente degli Stati confederati, Jefferson Davis.



     
       Fu solo all'inizio di giugno del 1862, quando il conflitto tra Nord e Sud era in atto da quasi un anno, che Lee, a seguito del ferimento in battaglia del generale Joseph Eggleston Johnson, ottenne il comando dell'Armata della Virginia settentrionale, la più poderosa tra le forze sudiste. La sua nomina non venne ben accolta dalla stampa confederata, che lo riteneva un generale troppo cauto e incapace. Tuttavia, nella celebre "Battaglia dei Sette Giorni", combattuta nelle vicinanze di Richmond (Virginia) nelle settimane immediatamente successive alla sua nomina, egli ebbe subito modo di mettere in mostra eccellenti doti di comandante, audace, amante del rischio, sempre pronto a cogliere qualsiasi opportunità per passare all'offensiva.
       Nelle settimane successive, Lee ottenne una grande vittoria nella seconda battaglia di Manassas, riprese l'iniziativa strategica, arrivò a minacciare Washington e decise di passare all'offensiva verso Nord, invadendo il Maryland, uno Stato le cui simpatie erano divise tra Unione e Confederazione. La mossa si rivelò però troppo audace e l'avanzata di Lee venne bloccata nella battaglia di Antietam (settembre 1862), la più sanguinosa dell'intero conflitto.
       I mesi successivi videro Lee vittorioso nella battaglia di Fredericksburg (dicembre 1862) e trionfatore in quella di Chancellorsville (maggio 1863), frutto di una manovra di aggiramento capolavoro, destinata a rimanere negli annali della storia militare.
       Sull'onda del successo e per cercare di porre in qualche modo rimedio alla strategia unionista, che stava cercando di stroncare il Sud con una guerra di logoramento intesa a minarne le capacità economiche, nell'estate del 1863 Lee decise di invadere nuovamente il Nord, nella speranza che ciò potesse convincere le potenze europee a riconoscere diplomaticamente la Confederazione e a intervenire per imporre la cessazione delle ostilità. Le forze confederate entrarono in Maryland e in Pennsylvania, che era uno Stato risolutamente unionista, ma vennero bloccate a Gettysburg (1-3 luglio 1863).
       Fu in questa epocale battaglia che Lee dimostrò tutti i suoi limiti: figlio del proprio tempo, non aveva compreso che i grandi attacchi frontali di fanteria in ordine chiuso, retaggio dell'arte della guerra del periodo napoleonico, non erano più possibili in un conflitto dominato dalle armi rigate, capaci di sviluppare una potenza di fuoco assolutamente sconosciuta ai tempi delle armi ad avancarica e ad anima liscia. Tale incapacità di comprendere lo condusse a riportare una grave sconfitta, che costò al Sud perdite dalle quali non si sarebbe più ripreso.
       Com'è noto, Gettysburg rappresentò il punto di svolta della Guerra Civile, dopo il quale il predominio unionista si fece sempre più marcato. Lee fu ancora in grado di combattere con successo significativi scontri difensivi, ma non riuscì mai più a riprendere l'iniziativa strategica, fino alla disfatta finale di Appomattox (aprile 1865).
       L'aspetto di maggiore interesse riguardante Lee è probabilmente la sua progressiva trasformazione in icona sudista. Già avviata nel corso del conflitto grazie alla assoluta fiducia che i soldati confederati riponevano in lui (fiducia che sconfinava nella venerazione), essa si accentuò dopo la disfatta, quando egli divenne di fatto il "padre della Patria" di una Patria che, in verità, non esisteva più. La sua figura ieratica, la sua natura carismatica, la sua inclinazione a combattere una "guerra senza odio" e a favorire, a partire dal 1865, una politica di riconciliazione tra Nord e Sud, mettendo da parte gli odi classicamente connessi a un conflitto intestino, ne hanno esaltato le qualità anche al di là di quelle - non certo indifferenti - che gli furono proprie.
       Oggi Lee e il Sud di fatto si identificano ed egli ha avuto un ruolo formidabile nel mantenimento della memoria storica sudista, che - com'è noto - resta estremamente forte. Al tempo stesso, questo ruolo iconico ha parzialmente oscurato i tentativi di articolare meglio ciò che il Sud avrebbe potuto fare - e non fece - durante la Guerra Civile, dal rinunciare a combattere un conflitto di tipo tradizionale per scegliere invece una guerra di guerriglia (e questo soprattutto a partire dal 1865) a continuare a rivendicare le ragioni dei diritti degli Stati, la vera chiave politica del conflitto, molto al di là della questione dell'abolizione della schiavitù, che fu, è e resta un tema essenziale della propaganda unionista, per evidenti motivi, ma è solo una parte del tutto. Non a caso, la sua figura è certamente intoccabile, ma rimane strumentale a un'intepretazione del Sud che fa comodo all'Unione, non certo al Sud stesso, in quanto trasforma in una sorta di parentesi, di "accidente della Storia", un conflitto che fu invece una straordinaria battaglia di libertà contro le prevaricazioni e le forzature costituzionali del potere centrale.

                             Piero Visani
                               

venerdì 16 gennaio 2015

I mille volti della pietà

       Il salvataggio di due giovani donne, per quanto dai comportamenti avventati, è certamente una notizia positiva. E' un salvataggio che comporta oneri gravosi per la comunità nazionale (12 milioni di dollari, si dice), ma potrebbe avere un senso se servisse a farne scaturire una politica, che invece non c'è.
       In effetti, se la logica del comportamento del governo italiano è qualcosa di simile a "Ok, il prezzo è giusto" (sono tutti figli della cultura berlusconiana, del resto, da Renzi a Salvini...), allora ci si chiede per quale ragione non sia stata applicata nel caso dei due marò, di cui uno è sequestrato in India da oltre tre anni. Forse perché 12 milioni di dollari, nel caso di uno Stato sovrano come l'India, non sarebbero davvero bastati, e ce ne sarebbero voluti molti di più?
       E perché questa pietà si trasforma in tragica severità quando i soggetti in gioco sono altri, sono imprenditori, professionisti, commercianti, a carico dei quali i poteri statali, tanto comprensivi con alcuni, diventano "angeli vendicatori" che non si fermano davanti a niente? Gli oltre mille "suicidi da crisi", che continuano con tragico stillicidio quotidiano, non sono forse anche essi vittime, e non colpevoli?
       Per quale ragione una sciocca avventatezza merita la spesa di 12 milioni di dollari; la tutela di due militari comporta solo fastidio, omissioni e brutte figure; la tutela di cittadini comuni merita la spada severa della Legge, che taglia teste non meno dell'Isis, e lo fa con la crudele ma in fondo rassicurante sciatteria della "banalità del Male"?
       In che cosa differiscono le oltre mille morti "da crisi" rispetto alle altre? E' ovvio che si è fatto bene a salvare le vite delle due cooperanti, ma si è al tempo stesso riflettuto sul fatto che la politica dell'indiscriminato pagamento dei riscatti non porta da nessuna parte, anzi ne legittima molti altri futuri, esponendo i cittadini italiani che vivono o si trovano in certe aree a rischi gravissimi? E perché si salvano alcune persone in pochi mesi, altre scompaiono per sempre e altre ancora rimangono detenute all'estero da un triennio? E per quale ragione, infine, tanta severità con chi non ce la fa a sopportare il peso di un declino frutto di scelte politiche ed economiche semplicemente folli?
       Credo che tutto questo meriterebbe una risposta molto articolata, perché comportamenti ispirati a un grande senso di pietà sono certamente apprezzabili, anche quando discutibili nei moventi che li determinano. Per contro, la politica del "doppiopesismo" è francamente intollerabile. Giusto salvare le due cooperanti in Siria, ma i due marò no? Giusto concedere a due sciocchine tutte le attenuanti del caso, ma perché non concederle a chi è stato massacrato da politiche economiche semplicemente folli e cede di schianto, suicidandosi e magari "suicidando" i propri familiari?
       Quando la finiremo, con questa pietà a senso unico, quella che fa comodo e fa immagine, mentre a carico di chi non offre queste caratteristiche scatta la mannaia del boia o diventa cibo da offrire in pasto al Leviatano?
       Quando usciremo da questi comportamenti "a geometria variabile", di pietà di comodo abbinata a sadica crudeltà? Quando ritroveremo un po' di giustizia e di dignità?

                                Piero Visani




       

mercoledì 14 gennaio 2015

Homo ludens

       Una parolina, una sola, inserita fuggevolmente (o magari no...) in un messaggio ti fa capire se la dimensione ludica, e le enormi implicazioni che essa comporta, sono note solo a te oppure ha altri cultori/conoscitori.
       La leggi, ci pensi un po' su, poi ti accorgi che stai facendo progressi, e non da solo...
       Il gioco, inteso appunto come ludus, è molto sottovalutato, nella nostra società, mentre invece è una via di conoscenza e di verità, oltre che un magico soppressore di distanze e divergenze.
       E' bello accorgersi che c'è chi capisce e che delle culture individuali sa cogliere lo strutturale, mettendo da parte l'epifenomenico. Ed è ancora più bello comprendere che c'è chi condivide la dimensione ludica, latamente intesa, e ne comprende le valenze ad ampio spettro.
       Per uno che è stato, per una vita intera, vox clamantis in deserto, è una soddisfazione (e un'emozione) non da poco.

                     Piero Visani



martedì 13 gennaio 2015

Libertà vigilata

       Com'è noto, compilando le dichiarazioni antimafia ci siamo liberati dalla mafia. Poi, magari, mentre noi eravamo lì, tutti intenti a compilare, si svolgeva qualche trattativa di troppo, tra varie tipologie di poteri (criminali e... anche). Ma noi intanto compilavamo, compilavamo con molto zelo, e speravamo bene...
           Poi mi ricordo di un modulo che un tempo si compilava entrando negli USA. Esso recitava più o meno come: "ha partecipato all'Olocausto"? E la natura grottesca della domanda era tale da indurmi a chiedermi che cosa sarebbe accaduto se, in preda a follia goliardica, avessi scritto sì. Penso che sarei ancora detenuto a Guantanamo, ovviamente innocente..., per aver voluto fare affidamento sul sense of humour degli Stati e dei loro sistemi di controllo.
         Quanto all'automatismo "più terrorismo = più controlli di polizia e meno diritti civili", ad esso va almeno riconosciuto un merito: di esplicitare con estrema chiarezza che ai governi dei "terroristi"non interessa alcunché, mentre interessa - e molto - delle libertà dei cittadini, che con questa scusa possono essere conculcate e violate.
         Il caso statunitense dell'11 settembre è ancora troppo fresco per essere dimenticato. E' questa la libertà che si vuole, per essere "messi al riparo" da "terroristi" con molti padri, alcuni dei quali stanno parecchio ad Occidente.
         Tra tutte le modalità di costruzione e perfezionamento del "Grande Fratello", questa è certo una delle più efficaci, ma anche delle più primitive. Diciamo che, se proprio uno non è un'"anima bella" di tale bellezza da abbacinargli non gli occhi, ma il cervello, qualche dubbio resta.
       "Dubitate, dubitate: qualcosa resterà..."

                                Piero Visani