Ci sono film che evidenziano senza problemi la loro natura nel momento stesso in cui prendono avvio. E' il caso di American Sniper, la più recente fatica di Clint Eastwood, che - nel presentare al grande pubblico la storia di Chris Kyle, il più celebre "cecchino" della storia delle Forze Armate USA, con oltre 160 "abbattimenti" ufficialmente riconosciuti - lascia trasparire fin dalle prime inquadrature la filosofia che ispira l'opera.
Rivolgendosi a tavola ai propri due giovanissimi figli maschi, il padre di Kyle esegue infatti una fondamentale distinzione, che è quella che ispira tutta la pellicola: "gli uomini si dividono in tre categorie: le pecore, quelli che non fanno male a nessuno; i predatori, quelli che le attaccano; e i cani da pastore, quelli che si assumono l'incarico di difenderle".
Filosofia di sicura presa, sulle menti più semplici, ma che omette alcuni fondamentali interrogativi: chi sono i predatori, come li si definisce? E poi: come ci si qualifica come "cani da pastore"? E ultimo, ma non minore: chi sono i "pastori", chi li nomina, a che titolo, con quali modalità?
Se si accetta la ratio che Eastwood evidenzia con tanta semplicità, il film - con il suo esibito manicheismo - può piacere, anche molto: è fatto bene, segue gli stilemi classici della pellicola di propaganda, accompagna il percorso di formazione del protagonista-eroe, dalle durezze dell'addestramento all'inferno dei combattimenti urbani, ricostruiti con notevole credibilità tecnica. Non mancano i problemi che evidenziano il baratro esistente tra la vita di guerra e quella di pace, e la distanza che, nel mondo contemporaneo, sussiste tra chi vive in società deliberatamente private di senso del tragico e chi, invece, quel senso deve affrontare giorno dopo giorno in combattimento, derivandone sensazioni di disagio, estraniazione, dislocazione, senso di spatriamento.
In una logica classica, il film è sicuramente bello; evidenzia con forza la fondamentale differenza che esiste tra combattenti e guerrieri, con i primi che affrontano lo scontro armato per dovere e i secondi che lo affrontano come un fondamentale e irrefrenabile impulso interiore, dove la primordialità dei valori in campo è talmente forte da apparire estranea alle società stesse per le quali i guerrieri sono chiamati a combattere.
Ovvio il desiderio di "fare qualcosa per il proprio Paese", ingenuamente percepito come minacciato (c'è un momento ai limiti dell'irrefrenabile ilarità, quando, assistendo in diretta televisiva agli eventi dell'11 settembre, il protagonista sente dire, dal telecronista che commenta il crollo della prima delle due "Torri gemelle": "sembrerebbe che stia cadendo come in un'esplosione controllata"..., citazione a mio parere assolutamente infelice ed eterotelica, su cui qualcuno della sceneggiatura avrebbe dovuto vigilare...), ma il tutto immerso in una logica incredibilmente e pesantemente manichea, in cui tutti i "cattivi" stanno da una parte e tutti "i buoni" (presunti, molto presunti...) dall'altra.
Non sembra, a dire il vero, lo stesso Eastwood di Letters from Iwo Jima o di Flags of our Fathers, pellicole di notevole spessore, percorse da dubbi e da innegabili riconoscimenti dell'avversario e dei suoi valori. Pare piuttosto il regista di un film di propaganda, ovviamente adeguato ai tempi, dove il nemico è inevitabilmente un "altro da sé", un mostro non appartenente al genere umano, che merita solo morte.
Proprio per non essere a nostra volta manichei, occorre riconoscere che il film non è certo privo di valori positivi, come l'esaltazione della figura del guerriero, il suo (talvolta ingenuo) riferimento a un apprezzabile universo di valori tradizionali, la stessa sottolineatura dell'importanza dei ruoli di genere, che può avere qualche scadimento di impronta machista, ma tiene pure conto di alcune fondamentali differenze di funzione.
Ciò premesso, si deve tuttavia ritornare all'interrogativo iniziale (e fondamentale): "cani da pastore", d'accordo, ma per quali pastori? Perché il ruolo dei "cani" è fin troppo ben delineato in questo film, così come quello dei "predatori" avversari. Totale, invece, appare il silenzio sulla natura dei "pastori". E infine rimane senza risposta l'interrogativo fondamentale: siamo davvero sicuri che i "nostri pastori" non siano per caso anch'essi dei "predatori", legittimi e legittimati solo in quanto "nostri" (e sullo stesso termine "nostri" avrei infinite riserve)?
Personalmente, avrei amato sentire porre anche questo fondamentale interrogativo. Il right or wrong, my country è molto bello, molto seducente, a condizione di non avere il dubbio di essere governati da delinquenti e predatori. Sfortunatamente, quel dubbio me lo porto dietro, sempre più forte, ormai da parecchio tempo, al punto da simpatizzare per i predatori altrui, che spesso hanno pure il buon gusto di presentarsi come tali, senza ingegnarsi di fare "i buoni", come i "predatori" nostrani. Amo i predatori dichiarati, anche se altrui (ammesso e non concesso che lo siano). Detesto i lupi travestiti da agnelli, e con vocazione alle prediche... Ci vuole coraggio, per essere predatori credibili...
Piero Visani
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