Fino intorno ai 45-50 anni, ho coltivato l'illusione che la mia esistenza potesse avere una dimensione pubblica, non nel senso che dovessi ricercare incarichi pubblici, ma che potessi in qualche maniera entrare in relazione con il mio prossimo. Da questa illusione ho ricavato tali e tante delusioni che, intorno ai 50 anni, ho deciso di sparire, nel senso di mettermi al riparo da tutto ciò che potesse darmi dolore e quel che era pubblico (Stato, enti locali, vita collettiva, relazioni interpersonali) era per me una costante fonte di dolore e di angoscia, per cui ho compiuto una sorta di "immersione rapida", cambiando lavori, isolandomi, cercando in me risposte che non avevo trovato al di fuori.
Intorno ai 60 anni, dopo un decennio di isolamento pressoché totale, il caso ha voluto che fossi nuovamente indotto ad affacciarmi, per quanto parzialmente, al mondo. In mezzo a nuove delusioni formidabili, sono stato più fortunato che in passato e ho capito che potevo cercare solo rimedi individuali e personalissimi. Ho trovato così singole persone che parlavano la mia stessa lingua e con esse ho ricominciato a comunicare. Ma sono pochissime e, anche se mi hanno aiutato molto, nessuna è ancora riuscita a farmi dare una risposta totalmente convincente alla domanda che mi assilla da una vita: "che cosa sono venuto a fare al mondo, io? E' un posto per me così inospitale!".
Tuttavia, non dispero: dal dialogo con the happy few qualcosa forse scaturirà. Come minimo, intanto, ho ripreso un fittissimo dialogo con me stesso. E in ogni caso so che il lento incedere del tempo mi darà, alla fine, la meno dolorosa delle risposte...
Piero Visani