venerdì 12 febbraio 2016

Vecchi articoli - 1: Armi proibite

       Ho deciso di pubblicare nel mio blog alcuni vecchi articoli che mi piacciono e che, nel rileggerli, mi pare abbiano positivamente resistito all'impatto del tempo.


Solo la guerra persa è un crimine internazionale: non avrebbe potuto essere più chiaro uno studioso di fama come Danilo Zolo nel suo recentissimo saggio La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad (Laterza). Un’affermazione scomoda, ma di assoluto realismo per chi si accosti alle problematiche del conflitto privo di pregiudizi e logica ferrea da scienziato della politica e del diritto, non desideroso di gratificazioni personali, ma assetato di verità.
   Sotto questo profilo, la storia recente dell’atteggiamento occidentale nei confronti della guerra è una storia di ripulse formali della pratica del conflitto e di un abbandono alquanto indiscriminato alla medesima sulla base di una disinvolta applicazione di un diritto internazionale messo al proprio servizio per giustificare le “guerre umanitarie” o le “guerre preventive contro il terrorismo”. Ma non è tutto, poiché tale problematica non ha soltanto aspetti di carattere generale, ma si applica pure a questioni più minute, che tuttavia possono rappresentare la differenza tra la vita e la morte per le persone che vi rimangano coinvolte.
   Durante il recente conflitto in Libano, ad esempio, ci sono state molte proteste (compresa parte della stampa americana) contro l’uso, da parte israeliana, delle micidiali cluster bombs, ordigni a frammentazione che, una volta lanciati, si trasformano in una miriade di ordigni minori. In genere utili contro forze militari convenzionali raggruppate in aree ristrette, il loro impiego diventa di fatto criminale quando vengono lanciate su zone densamente popolate. In effetti, non sono concepite per esplodere all’impatto, ma si depositano al suolo e rimangono pronte a colpire, cosa che avviene in genere quando sono rinvenute dalla popolazione civile, soprattutto dai bambini.
   Le convenzioni internazionali hanno cercato di porre un argine a questo tipo di impieghi devastanti e in tal senso si è positivamente distinta la Convenzione sul divieto o la limitazione dell’impiego di talune armi classiche che possono essere ritenute capaci di causare effetti traumatici eccessivi o di colpire in modo indiscriminato, conclusa a Ginevra il 10 ottobre 1980. Essa si fonda sul fatto che un conflitto armato non è illimitato nella scelta dei mezzi e dei metodi di guerra, «e sul principio che vieta di impiegare nei conflitti armati armi, proiettili e materie nonché metodi di guerra capaci di provocare mali superflui», in particolar modo a carico della popolazione civile.
   Parole assolutamente chiare. Tuttavia, quando dalle affermazioni di principio si passa all’applicazione pratica delle medesime, la situazione muta radicalmente. Ciò accade – è bene sottolinearlo con forza – già a livello di formulazione teorica. Ad esempio, l’art. 4 della Convenzione di cui sopra vieta l’impiego di armi particolarmente devastanti nelle città, nei villaggi e in ogni caso ovunque si registri una forte concentrazione di civili, ed in cui non siano in corso combattimenti tra le forze terresti, od i combattimenti non sembrino imminenti, a meno che (qui sta il punto cruciale…) esse non siano collocate su un obiettivo militare del nemico o nelle immediate vicinanze del medesimo e non siano state prese misure di protezione della popolazione civile.
   Non è necessario essere particolarmente malevoli per capire che, in questo modo, ciò che è stato allontanato dalla porta rientra, per così dire, dalla finestra, consentendo a tutti di fare tutto e di scambiarsi un’inesauribile serie di accuse e controaccuse. La norma, infatti, è talmente poco chiara a livello teorico da divenire del tutto inapplicabile a livello pratico e consentire il più assoluto arbitrio da parte delle forze in campo. Lo si è visto proprio in Libano, dove Israele ha fatto ampio uso di bombe a frammentazione e ordigni incendiari, essendo in tal modo oggetto di veementi accuse, ma avendo a sua volta facile gioco nel replicare che gli Hezbollah hanno palesato una certa disinvoltura nell’utilizzare ambiti civili per coprire attività di inequivocabile carattere militare.
   La realtà vera è che il diritto internazionale, in particolare quello umanitario, si dimostra sempre più in difficoltà a tenere dietro ad una deriva in cui è al nemico in quanto tale che non viene riconosciuta alcuna legittimità, per cui è difficile creare un quadro normativo appena accettabile. Il vecchio tentativo dello ius publicum europaeum – sapientemente evocato da Carl Schmitt – di “ritualizzare” la guerra, evitando di trasformarla in uno scontro di annientamento, ha dovuto cedere il passo all’illusione wilsoniana di poter mettere al bando la guerra sul piano giuridico, ciò che ha trasformato il nemico (il justus hostis di un tempo) in un semplice criminale, in un “violatore della legge” al di fuori del genere umano, contro il quale, per impedirgli di nuocere, è lecito scatenare anche un’aggressione globale.
   Una deriva del genere è del tutto inaccettabile, ma, al tempo stesso, è proprio quanto sta avvenendo. Le convenzioni internazionali continuano a vietare - com’è giusto che facciano - le armi più mortifere e il mancato rispetto dei civili, ma non riescono ad ottenere risultati apprezzabili perché una codifica formale delle situazioni belliche può avere luogo solo tra avversari che si combattono, ma si rispettano, e non tra nemici assoluti che non si riconoscono reciprocamente alcuna legittimità. Chi ci va di mezzo, una volta di più, sono le popolazioni civili e questo – a ben guardare – non è per nulla sorprendente perché, in un conflitto in cui al nemico non viene riconosciuta legittimità alcuna, sono tutti nemici, dagli infanti ai vegliardi.
   Sotto questo profilo, il richiamo alle convenzioni internazionali è strumentale e provocatorio. Tali convenzioni infatti, pur con tutti i loro limiti di ambiguità formale e anche sostanziale, sono state scritte avendo a mente un quadro giuridico di conflitti interstatali, il che significa che prendono a riferimento una realtà che non esiste più. La guerra odierna è qualcosa di decisamente diverso, per la quale non sono stati ancora elaborati strumenti adeguati, a meno che non si vogliano considerare tali le teorizzazioni del “diritto del più forte” in cui eccellono gli americani ed i loro sostenitori, ovviamente mascherandole dietro le amenità dell’”interventismo umanitario” e del fondamentalismo giuridico che ad esso si accompagna.
   Se si accetta questa logica, tuttavia, è evidente che armi realmente proibite non esistono e non possono esistere, perché nessuno ha il diritto di fermare la collera dei “Buoni”, neppure se autoproclamatisi tali. Lasciando per un momento da un canto l’impiego di cluster bombs da parte israeliana, è sufficiente tornare con la memoria agli ordigni impiegati dai Marines statunitensi nella battaglia di Falluja per rendersi conto che la “guerra ai nemici dell’umanità” non può risultare sottoposta ad alcuna legge. Una potenza legibus soluta in quanto intrinsecamente “buona” ed alla quale nulla è proibito: questa la visione americana del diritto bellico internazionale. Nel suo ambito, non esistono e non possono esistere armi proibite.

                                                                            Piero Visani