La scrittura di genere è una delle più difficili. Essa abbonda infatti di topoi, vale a dire di strutture convenzionali, di luoghi comuni, nelle quali è facile immergersi e rimanere prigionieri. Un caso esemplare al riguardo è la letteratura pornografica, che non riesce a diventare erotica se non si distacca dalla descrizione dell'atto sessuale - in sé assai banale, ad onta di tutte le variabili possibili - e non si solleva ad altri livelli, più complessi (dallo psicologico al relazionale), che sono componenti fondamentali della sessualità.
Nel caso di Kàera'hul. Tomo del Cavaliere (Eretica Edizioni, Buccino (SA), 2015), di Alexander Vankenbach, il pericolo era quello di incorrere in tutti i topoi di una forma letteraria che potrebbe essere quella della heroic fantasy, che di tali topoi abbonda, non escluso il ricorso a un linguaggio simil-arcaico.
Mi sono accostato con questo timore al romanzo di Vankenbach, ma, dopo poche pagine, ho capito che l'Autore non era incorso in quel rischio, pur rispettando tutte le peculiarità di quel tipo di letteratura. Ho infatti letto il libro tutto di un fiato, e l'ho fatto per due motivi: il primo è che la capacità di costruzione di una trama, da parte dell'Autore, è decisamente positiva, per cui, dopo poche pagine, mi sono ritrovato al centro di una vicenda che, per quanto di impostazione sostanzialmente tradizionale, mi aveva "preso" e mi aveva indotto ad andare avanti cercando di capirne e conoscerne gli sviluppi, nel classico tentativo di "vedere come andrà a finire", che di un autore evidenzia sempre la sua capacità di costruire una storia, di sviluppare una narrazione in forma sicuramente accattivante per il lettore, tanto più per un lettore come me, non particolarmente attratto da questo tipo di tematiche.
Più importante ancora del primo motivo si è rivelato tuttavia, ai miei occhi di lettore professionale e sicuramente esperto di libri (non foss'altro che per ragioni anagrafiche), il secondo, vale a dire la capacità dell'Autore di rinunciare a costruire - come è tipico di questo genere - una storia fatta solo di certezze, ma di cospargerla di dubbi, di ipotesi alternative a una lettura in fondo scontata e dunque tranquillizzante, per invitare prima di tutto il lettore a dubitare delle proprie certezze, a chiedersi se una visione manichea del mondo, per quanto consolatoria, sia davvero l'unica e soprattutto la migliore possibile.
Vankenbach compie, a questo riguardo, un piccolo miracolo e, nella parte finale, trasforma un'opera di genere in un'opera di dubbio, di analisi autocritica di sé e delle proprie motivazioni, di lettura scettica delle ipotesi possibili, confessando che il protagonista è tormentato da un dubbio: "chi fu davvero nel giusto?", negli sviluppi della vicenda. Questo è un autentico colpo d'ala, rispetto al dichiarato e spesso un po' statico manicheismo di molti scrittori, e dimostra un notevole travaglio interiore, che è quanto di meglio si possa chiedere a un Autore e che potrà magari indurlo a cercare di risolvere i suoi dubbi - che sono anche i nostri - in un'opera successiva.
Piero Visani