Ho deciso di pubblicare nel mio blog alcuni vecchi articoli che mi piacciono e che, nel rileggerli, mi pare abbiano positivamente resistito all'impatto del tempo.
Solo
la guerra persa è un crimine internazionale: non avrebbe potuto essere più
chiaro uno studioso di fama come Danilo Zolo nel suo recentissimo saggio La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a
Baghdad (Laterza). Un’affermazione scomoda, ma di assoluto realismo per chi
si accosti alle problematiche del conflitto privo di pregiudizi e logica ferrea
da scienziato della politica e del diritto, non desideroso di gratificazioni
personali, ma assetato di verità.
Sotto questo profilo, la storia
recente dell’atteggiamento occidentale nei confronti della guerra è una storia
di ripulse formali della pratica del conflitto e di un abbandono alquanto indiscriminato
alla medesima sulla base di una disinvolta applicazione di un diritto
internazionale messo al proprio servizio per giustificare le “guerre
umanitarie” o le “guerre preventive contro il terrorismo”. Ma non è tutto,
poiché tale problematica non ha soltanto aspetti di carattere generale, ma si
applica pure a questioni più minute, che tuttavia possono rappresentare la differenza
tra la vita e la morte per le persone che vi rimangano coinvolte.
Durante il recente conflitto in
Libano, ad esempio, ci sono state molte proteste (compresa parte della stampa
americana) contro l’uso, da parte israeliana, delle micidiali cluster bombs, ordigni a frammentazione
che, una volta lanciati, si trasformano in una miriade di ordigni minori. In
genere utili contro forze militari convenzionali raggruppate in aree ristrette,
il loro impiego diventa di fatto criminale quando vengono lanciate su zone
densamente popolate. In effetti, non sono concepite per esplodere all’impatto,
ma si depositano al suolo e rimangono pronte a colpire, cosa che avviene in
genere quando sono rinvenute dalla popolazione civile, soprattutto dai bambini.
Le convenzioni internazionali
hanno cercato di porre un argine a questo tipo di impieghi devastanti e in tal
senso si è positivamente distinta la Convenzione
sul divieto o la limitazione dell’impiego di talune armi classiche che possono
essere ritenute capaci di causare effetti traumatici eccessivi o di colpire in
modo indiscriminato, conclusa a Ginevra il 10 ottobre 1980. Essa si fonda
sul fatto che un conflitto armato non è illimitato nella scelta dei mezzi e dei
metodi di guerra, «e sul principio che vieta di impiegare nei conflitti armati
armi, proiettili e materie nonché metodi di guerra capaci di provocare mali
superflui», in particolar modo a carico della popolazione civile.
Parole assolutamente chiare.
Tuttavia, quando dalle affermazioni di principio si passa all’applicazione
pratica delle medesime, la situazione muta radicalmente. Ciò accade – è bene
sottolinearlo con forza – già a livello di formulazione teorica. Ad esempio,
l’art. 4 della Convenzione di cui sopra vieta l’impiego di armi particolarmente
devastanti nelle città, nei villaggi e in ogni caso ovunque si registri una
forte concentrazione di civili, ed in cui non siano in corso combattimenti tra
le forze terresti, od i combattimenti non sembrino imminenti, a meno che (qui
sta il punto cruciale…) esse non siano collocate su un obiettivo militare del
nemico o nelle immediate vicinanze del medesimo e non siano state prese misure
di protezione della popolazione civile.
Non è necessario essere
particolarmente malevoli per capire che, in questo modo, ciò che è stato
allontanato dalla porta rientra, per così dire, dalla finestra, consentendo a
tutti di fare tutto e di scambiarsi un’inesauribile serie di accuse e controaccuse.
La norma, infatti, è talmente poco chiara a livello teorico da divenire del
tutto inapplicabile a livello pratico e consentire il più assoluto arbitrio da
parte delle forze in campo. Lo si è visto proprio in Libano, dove Israele ha
fatto ampio uso di bombe a frammentazione e ordigni incendiari, essendo in tal
modo oggetto di veementi accuse, ma avendo a sua volta facile gioco nel
replicare che gli Hezbollah hanno palesato una certa disinvoltura
nell’utilizzare ambiti civili per coprire attività di inequivocabile carattere
militare.
La realtà vera è che il diritto
internazionale, in particolare quello umanitario, si dimostra sempre più in
difficoltà a tenere dietro ad una deriva in cui è al nemico in quanto tale che
non viene riconosciuta alcuna legittimità, per cui è difficile creare un quadro
normativo appena accettabile. Il vecchio tentativo dello ius publicum europaeum – sapientemente evocato da Carl Schmitt – di
“ritualizzare” la guerra, evitando di trasformarla in uno scontro di
annientamento, ha dovuto cedere il passo all’illusione wilsoniana di poter
mettere al bando la guerra sul piano giuridico, ciò che ha trasformato il
nemico (il justus hostis di un tempo)
in un semplice criminale, in un “violatore della legge” al di fuori del genere
umano, contro il quale, per impedirgli di nuocere, è lecito scatenare anche un’aggressione
globale.
Una deriva del genere è del
tutto inaccettabile, ma, al tempo stesso, è proprio quanto sta avvenendo. Le
convenzioni internazionali continuano a vietare - com’è giusto che facciano -
le armi più mortifere e il mancato rispetto dei civili, ma non riescono ad
ottenere risultati apprezzabili perché una codifica formale delle situazioni
belliche può avere luogo solo tra avversari che si combattono, ma si
rispettano, e non tra nemici assoluti che non si riconoscono reciprocamente
alcuna legittimità. Chi ci va di mezzo, una volta di più, sono le popolazioni
civili e questo – a ben guardare – non è per nulla sorprendente perché, in un
conflitto in cui al nemico non viene riconosciuta legittimità alcuna, sono tutti nemici, dagli infanti ai
vegliardi.
Sotto questo profilo, il
richiamo alle convenzioni internazionali è strumentale e provocatorio. Tali
convenzioni infatti, pur con tutti i loro limiti di ambiguità formale e anche
sostanziale, sono state scritte avendo a mente un quadro giuridico di conflitti
interstatali, il che significa che prendono a riferimento una realtà che non
esiste più. La guerra odierna è qualcosa di decisamente diverso, per la quale
non sono stati ancora elaborati strumenti adeguati, a meno che non si vogliano
considerare tali le teorizzazioni del “diritto del più forte” in cui eccellono
gli americani ed i loro sostenitori, ovviamente mascherandole dietro le
amenità dell’”interventismo umanitario” e del fondamentalismo giuridico che ad
esso si accompagna.
Se si accetta questa logica,
tuttavia, è evidente che armi realmente proibite non esistono e non possono
esistere, perché nessuno ha il diritto di fermare la collera dei “Buoni”,
neppure se autoproclamatisi tali. Lasciando per un momento da un canto
l’impiego di cluster bombs da parte
israeliana, è sufficiente tornare con la memoria agli ordigni impiegati dai
Marines statunitensi nella battaglia di Falluja per rendersi conto che la
“guerra ai nemici dell’umanità” non può risultare sottoposta ad alcuna legge.
Una potenza legibus soluta in quanto
intrinsecamente “buona” ed alla quale nulla è proibito: questa la visione americana
del diritto bellico internazionale. Nel suo ambito, non esistono e non possono
esistere armi proibite.
Piero Visani