Si leggono spesso molte banalità sulla completa mancanza, in Italia, di una cultura del merito, e certamente questo Paese ne è privo. Tuttavia, a me pare che si rifletta assai meno sul fatto che il merito non piove dal cielo, ma è frutto, oltre che di talento e intelligenza, anche di studio, applicazione, metodo, fatica quotidiana.
Ricordo che, quando mio figlio si affacciò per la prima volta, nel 1989, alla scuola elementare, fui costretto a combattere per anni una dura battaglia contro le continue richieste, da parte dei genitori dei suoi compagni su sabati liberi, pochi compiti a casa, meno compiti della vacanze, ponti e ponticelli, e così via.
Di fronte alle mie resistenze, al tentativo di porre in connessione studio, cultura, elevazione della mente e della capacità di giudizio, la risposta era sempre una sola: "quello che conta è una buona raccomandazione". E questa frase, in un Paese come il nostro, chiude in genere la possibilità di qualsiasi resistenza e/o obiezione, perché tutti sanno che è tragicamente vero.
Poiché da noi si ragiona - quando si ragiona - in una prospettiva tattica e mai in una strategica, i genitori che mi contornavano, tipici esemplari da collina torinese dei roaring Eighties, erano apertamente e dichiaratamente convinti che il patrimonio di ottime relazioni sociali di cui erano provvisti avrebbe sopperito alla mancanza di cultura, e spesso anche di intelligenza tout court, dei loro rampolli.
Il problema è che, a gioco lungo, queste scelte diventano devastanti, disastrosamente devastanti. La mitica "prevalenza del cretino", condannata a suo tempo da Fruttero & Lucentini, finisce per collocare, in tutte le posizioni di responsabilità, una massa crescente di cretini, con i risultati che abbiamo sotto gli occhi: presidenti del Consiglio che dicono "barbaria" invece di "barbarie"; economisti che non sanno fare neppure i conti della serva; incompetenti piazzati un po' ovunque. Gente che non crede nello studio, nella cultura, nell'importanza della ricerca, dell'innovazione, della necessità di cambiare di continuo, per non farsi superare dalla concorrenza, perché non ha mai avuto concorrenza, al massimo ha avuto dei rivali nella corsa alla posizione cui ambiva. Privilegiati arrivati nei posti che occupano "per grazia ricevuta". Non succede soltanto da noi, ovvio, ma da noi una condizione del genere sviluppa solo un malinteso senso di superiorità, come per il marchese del Grillo: "io so' io e voi nun siete un cazzo!". Con il corollario che chi (s)ragiona così non solo non si preoccupa di sopperire alla propria impreparazione, ma se ne fa addirittura un vanto, in quanto, nella società italiana, essere "cretini vincenti" è segno di appartenenza alla "casta", è innegabile indizio di essere "figli di un dio maggiore".
Il disastro in corso in tutti gli ambiti della società italiana è anche figlio di questa cecità assoluta e soddisfatta, che ci sta precipitando indietro in tutte le classifiche planetarie, qualunque tipo di settore esse riguardino. Perché noi italiani, da terribili equalizzatori ed omologatori quali siamo nel nostro profondo, pensiamo di essere sempre i migliori del mondo e che il mondo stesso non possa andare avanti senza di noi. Invece ci va benissimo e ci lascia sempre più indietro. Così ci crediamo dei Napoleoni Buonaparte e in effetti realmente lo siamo: sì, ma in un manicomio, ovviamente aperto, come da legge Basaglia...
Piero Visani