Come può essere una località di montagna
nel mese di maggio? Un mortorio: finita la stagione dello sci e non ancora
iniziata quella estiva. Locali chiusi, negozi in ferie, serrande abbassate,
pochissima gente in giro, tanto meno turisti.
Contando proprio su tutto questo, mi ero
recato nel mio appartamento di Courmayeur. Volevo scrivere qualcosa, in santa
pace, onde rispettare le scadenze che avevo con i miei clienti. Facevo un
mestiere particolare, il ghostwriter,
e avevo parecchi committenti, e le loro commesse da completare.
In realtà, l’appartamento di Courmayeur
non era propriamente mio, ma di una mia ex che mi era rimasta amica anche dopo
la conclusione della nostra relazione e con la quale, in definitiva, avevo
mantenuto un buon rapporto, per circa un trentennio, forse più.
L’appartamento era posto sulla
circonvallazione, in un condominio piuttosto noto, caratterizzato anteriormente
da un piccolo tratto di portici con negozi. Non era grandissimo, ma neppure
piccolo, con le sue due camere da letto, un soggiorno e soprattutto – cosa a me
molto cara – uno studiolo che dava sul cortile interno e garantiva la massima
tranquillità per chi volesse scrivere immerso nel silenzio. Alice – la mia ex –
me ne aveva concesso le chiavi qualche mese dopo che ci eravamo lasciati,
quando, esaurite le reciproche tensioni, ci eravamo infine chiariti e avevamo
convenuto che potevamo restare amici. L’intesa era che avremmo dovuto
concordare tempi e modi di come usarlo, e lo avevamo fatto davvero, i primissimi
tempi, poi Alice era pressoché scomparsa e, quando avevo tentato di
contattarla, era stata gentile ma molto evasiva, per cui avevo smesso di
cercarla e, ovviamente, anche di usare l’appartamento. In alternativa,
utilizzavo la mansarda di mia sorella e mio cognato, nei pressi delle Terme di
Pré Saint-Didier, a pochi chilometri dalla mitica “Courma”.
Non è facile spiegare che cosa mi indusse,
quel giorno di metà maggio, a pensare di utilizzare nuovamente quell’appartamento,
per di più dopo essermi limitato ad avvertire Alice con una semplice mail (alla
quale, peraltro, neppure avevo ricevuto risposta). Forse un insano desiderio di
compiere un’incursione all’interno della sua vita, una vita che per me era
diventata sempre più segreta e sulla quale, molto probabilmente, mi era sorta
la curiosità di sapere di più.
Arrivai nei pressi del condominio in un
pomeriggio di pallido sole, a inizio settimana, e constatai subito come il
paese fosse quasi deserto. Sapevo che l’appartamento aveva un posto auto, nel
garage interno, ma non ne avevo le chiavi e non mi interessava usarlo. I
parcheggi nei dintorni erano semivuoti e per di più in zona bianca, dunque
gratuita.
Avevo con me solo un piccolo trolley e
il mio notebook. Null’altro. Volevo concentrarmi e lavorare, non fare vita
mondana. E dove, poi…?
Parcheggiai l’auto nelle vicinanze e
raggiunsi a piedi il condominio. L’appartamento era al terzo piano e ci arrivai
in ascensore. Tirai fuori la chiave e la introdussi nella serratura. Invano.
Non mi pareva che la serratura fosse stata cambiata, per cui rimasi un attimo
perplesso, poi ripetei il tentativo di aprire, con calma, cautela e
circospezione. Nessun risultato. Molto sorpreso, rimasi interdetto un attimo,
quando dell’interno dell’appartamento si levò una voce femminile vagamente
stizzita: “Chi è?”.
Rimasi profondamente sorpreso, ma
risposi: “Sono Carlo”.
“Carlo chi?” fu la risposta, direi
inevitabilmente interrogativa, data la situazione.
“Carlo Savini”.
Un lungo momento di silenzio, poi la
porta si aprì, dopo un marcato cigolio di serrature, come se si trattasse di
una porta blindata, e comparve una donna assai alta, di circa 35 anni (almeno
in apparenza), con indosso un maglione bianco e lunghi leggins neri.
“Desidera?”, chiese lei con aria
interrogativa e vagamente diffidente
“Sono Carlo Savini, un amico di vecchia
data della signora Vallenari. Per anni la signora mi ha concesso di usare
questo appartamento, e un tempo lo facevo spesso. Poi ho smesso. Le avevo
telefonato per comunicarle che sarei venuto qui oggi, ma non sono mai riuscito
a trovarla, per cui mi sono limitato a inviarle una mail”. Era una mezza bugia,
perché solo l’accenno alla mail era fondato, ma non volevo fare brutta figura,
date le circostanze, e così colorii un po’ il mio racconto.
La giovane donna, che fino a quel
momento mi aveva squadrato con una certa diffidenza, sorrise e mi tese la mano:
“Sono Eleonora Vallenari, la figlia di Alice. Lieta di conoscerla”.
Le strinsi la mano, ma rimasi
palesemente interdetto. Non avevo mai saputo che Alice avesse avuto una figlia,
e da chi? Oltre tutto, vista la prevedibile età di Eleonora, il tutto doveva
essere accaduto poco tempo dopo che ci eravamo lasciati.
Non so dire se Eleonora colse o meno la
mia sorpresa. Quel che è certo è che la giovane donna pareva pienamente in
controllo di sé.
“In verità, mia madre non mi ha detto
assolutamente nulla. Da qui la mia sorpresa per un tentativo di scassinamento della
porta…”.
L’ironia era evidente e abbozzai un mezzo
sorriso. Poi ovviamente dissi: “Mi spiace di averla disturbata. La saluto e mi
trovo un albergo”.
“Non ce ne saranno molti, aperti” -
ribatté decisa Eleonora - “Per quanto mi riguarda, visto che ci sono parecchie
stanze e considerati i suoi rapporti di amicizia con mia madre, lei può anche
rimanere qui”.
“Non mi pare il caso” – obiettai io. Ma
Eleonora fu ancora più decisa: “Lei può stare al piano di sopra, io a quello di
sotto. Saremo totalmente indipendenti. Io poi non credo che rimarrò qui molto.
Devo tornare a Milano, a riprendere il lavoro”.
La franchezza di Eleonora, così decisa e
diretta, mi sorprese piacevolmente. Poco incline a mettermi alla ricerca di un
hotel in una Courmayeur completamente fuori stagione, a poche ore dalla cena,
decisi di accettare il suo invito: “La ringrazio, Lei è molto gentile. Non mi
farò sentire granché. Mi metto al computer e scompaio”.
La giovane donna sorrise: “Prego; allora
faccia come se fosse a casa sua!”.
Di nuovo riscontrai una certa ironia,
nelle sue parole, ma erano palesemente frutto di una situazione vagamente
surreale, per cui non diedi loro un gran peso.
Mi sistemai rapidamente nella stanza del
piano di sopra, che peraltro era la più grande delle due camere da letto
dell’appartamento, corredata da un bel bagno padronale e posta immediatamente
di fronte allo studiolo.
Lavorai per alcune ore, con impegno, poi
arrivò l’ora di cena e pensai che sarebbe stato il minimo invitare Eleonora al
noto ristorante situato proprio al piano terra del condominio, che – come avevo
constatato arrivando – era fortunatamente aperto.
Scesi al piano di sotto, senza neppur
modificare il mio abbigliamento, visto che per una cena in un ristorante di
montagna, per quanto elegante, andava benissimo, e trovai Eleonora seduta
nell’ampio soggiorno, intenta a leggere un libro.
“Posso invitarla a cena per ovviare a
questa mia indebita e indelicata ‘invasione di campo’?”.
Sorrise sorniona, quasi come se se lo
aspettasse: “Com’è gentile. La ringrazio, ma non mi pare il caso”.
“Mi permetto di insistere”, esclamai io.
“Potremmo andare qui sotto, senza sobbarcarci chilometri di strada. E’ un
locale buono e di classe”.
Eleonora annuì e mi chiese: “Devo
cambiarmi o posso venire in questa mise
alquanto a basso profilo?”
“Non la definirei tale” – ribattei io –
“anzi, se mi posso permettere, è un look minimalista che le dona molto”.
Dopo aver profferito quella frase, mi
accorsi che forse avrei dovuto essere più prudente, meno diretto, ma non diedi
molta importanza alla cosa. Dopo tutto, Eleonora avrebbe potuto essere mia
figlia e, in verità, non mi pareva di aver assunto, fino a quel momento,
comportamenti che potessero essere definiti anche solo lontanamente ambigui.
“D’accordo. Allora possiamo scendere
anche subito. Sono le 8 e saranno sicuramente aperti”.
In effetti, il ristorante era aperto e,
sebbene fosse inizio settimana, non era vuoto, anzi aveva già un discreto
numero di avventori.
Forse scambiandoci per una coppia, ci
fecero accomodare a un tavolo piccolo ma defilato e discreto, dove Eleonora ed
io ci ritrovammo faccia a faccia, a guardare il ricco menù che ci venne
prontamente presentato.
Dopo varie proposte e controproposte,
optammo entrambi per dei piatti di pesce e io pretesi di poterli esaltare con uno
splendido Chardonnay Les Crêtes, a mio
giudizio uno dei migliori vini di tutta la Val d’Aosta.
Eleonora fece una timida obiezione sul
fatto che a lei piaceva di più il rosso, ma convenne con me che lo Chardonnay,
per l’abbinamento con il pesce, era decisamente più adatto.
La cena fu un crescendo, quasi un
crescendo rossiniano: partì lenta e circospetta, come era normale tra due
estranei, ma poi – non so neanch’io per quale motivo – pian piano si accese e
accelerò. Forse fu il vino, forse fu l’alchimia che si stabilì subito fra di
noi, ma l’imbarazzo e la diffidenza iniziali vennero progressivamente meno.
Fu Eleonora a fare il primo passo e a
proporre di darci del “tu”, cosa che accettai senza problemi. Ma fu soprattutto
il suo linguaggio del corpo a mutare: inizialmente era stata molto algida;
gentile ma ripiegata su se stessa, estremamente sulla difensiva. Ora stava
celermente cambiando e il suo comportamento si faceva sempre più amicale.
Attribuii quella metamorfosi al vino, ma
forse avrei dovuto essere più attento, meno superficiale. Quello che mi mise
fuori strada è che, nello starle seduto di fronte, avevo incominciato a notare
che Eleonora era una donna piuttosto bella e non priva di una sua classe. Il
viso – è vero – era irregolare, ma fasciato da una grande cascata di capelli
bruni permanentati, che le conferivano un’aria particolare, direi quasi étrange, e al tempo stesso estremamente sicura di sé. Tuttavia,
quello che già aveva fatto colpo su di me era il suo fisico assolutamente da
modella: un’altezza superiore a 1,75, gambe lunghissime e affusolate, bacino
stretto, non un etto di grasso; il tutto per così dire sovrarappresentato da
un’evidente consapevolezza della sua bellezza e soprattutto del suo fascino.
Ho sempre avuto un debole, per la
bellezza, e sono sempre stato sensibile al fascino femminile, specie se
palesemente ostentato in mia presenza, con evidenti intenti seduttivi. È una mia debolezza – ne sono consapevole – che mi
ha procurato molti più dolori che gioie, ma, meno di mezz’ora dopo che eravamo
seduti in quel ristorante, già mi chiedevo se avevo voglia di resistere agli
evidenti giochi di seduzione di quella giovane donna. La risposta che mi diedi
fu chiarissima: non ne avevo alcuna. Capita raramente, nella vita, di
incontrare una donna tanto vicina al proprio archetipo di femminilità e, se
quella doveva essere una partita per una one
night stand, avevo deciso di giocarmela fino in fondo…
Con tipico intuito femminile, Eleonora
capì che la sua strategia di seduzione stava avendo successo e, ovviamente, si
sentì legittimata ad accentuarla. A partire dall’arrivo dei secondi piatti e
fino al sorbetto alla vodka con cui concludemmo la nostra cena, i suoi
comportamenti si fecero sempre più seduttivi: gestualità studiata, piccoli
toccamenti delle sue dita alle mie, occhiate vagamente allusive, mano passata
tra i capelli, per rovesciarli all’indietro. Per un uomo delle mia età, un
assoluto déjà vu, ma anche una
visione innegabilmente piacevole, e molto promettente.
Rimaneva – è vero – un’abissale
differenza di età, ma Eleonora non era certo una minorenne, anzi pareva una
femmina alquanto navigata, che forse dimostrava meno anni di quanti avesse
realmente. La mia mente, del resto, nel mentre mi preparavo mentalmente a un
possibile rapporto sessuale (che, date le circostanze, non mi sentivo certo di
escludere), stava già cercando di fare tabula
rasa di qualsiasi prevedibile impedimento al coito. Una sorta di
giustificazione preventiva, di cui peraltro la mia indole avventurosa non mi
faceva sentire il benché minimo bisogno.
La cena si protrasse più del previsto,
tanto stavamo bene insieme e tanto le schermaglie di genere che avevamo
intrapreso ci parevano divertenti e degne del nostro impegno. A un certo punto,
tuttavia, ci parve preferibile uscire, onde evitare di rimanere gli unici
clienti presenti all’interno del ristorante.
L’aria, sotto quei brevi portici, era
alquanto freddina, visto che si erano ormai fatte le 11, ma fu Eleonora a
proporre di fare una passeggiata in paese, per “smaltire” – disse proprio così
– la cena.
Lo Chardonnay Les Crêtes aveva esercitato un innegabile effetto su di
lei, che pareva molto “su di giri”, ai limiti dell’eccitazione gioiosa. Per
alcune centinaia di metri mi camminò a fianco, urtandomi continuamente con il
gomito, poi mi prese decisamente sottobraccio, lamentando che sentiva un po’ di
freddo, sebbene sulla sua tenuta “da casa” avesse indossato un elegante caban
nero.
La traversata di Courmayeur, da un
estremo all’altro della zona pedonale, non è particolarmente lunga, neppure nei
due sensi, e per di più la nostra ricerca di un caffè in cui continuare la
serata si rivelò vana. Tutti chiusi o in procinto di chiudere.
Erano altre, tuttavia, le considerazioni
che mi affollavano la mente, mentre Eleonora si stringeva sempre più a me.
Aveva un seno in aperto contrasto con il resto del suo corpo, vale a dire
decisamente più accentuato di quello che ci si sarebbe aspettato da una donna
con le sue caratteristiche fisiche e, dal momento che indossava un maglioncino
bianco molto scollato e non aveva certo chiuso il caban fino al collo, non
potei fare a meno di guardarlo e di notarne le dimensioni importanti. Nulla di realmente
sproporzionato al resto del corpo – sia chiaro – ma decisamente un seno che non
ci si sarebbe atteso in una donna come lei. Mi sorpresi a pensare (amo molto le
divagazioni…) che, se realmente avesse mai voluto fare la modella, in gioventù,
con quel seno avrebbe avuto non poche difficoltà…
Questa osservazione così ravvicinata mi
fece notare anche altri due aspetti che avevo colpevolmente trascurato: il
colorito insolitamente scuro della sua pelle, abbastanza anomalo per un’europea
e come minimo frutto della pratica reiterata di qualche attività all’aria
aperta; la presenza di un numero notevole di efelidi, che a prima vista
parevano diffuse un po’ ovunque sul suo corpo.
Si stava avvicinando la mezzanotte e non
c’era altra opzione apparente che il ritorno a casa.
Una volta rientrati nel palazzo, la
porta aperta dell’ascensore ci si offrì davanti agli occhi e naturalmente la
varcammo, per arrivare più comodamente al terzo piano, il nostro.
L’ascensore era piccolo e stretto, in
grado di ospitare non più di tre persone. Noi eravamo in due ma non eravamo
ancora arrivati al primo piano che eravamo già diventati una persona sola, in
quanto Eleonora mi si gettò praticamente addosso, travolgendomi con un bacio
appassionato.
Se dicessi che ne fui sorpreso,
mentirei. Ciascuno di noi aspettava il momento opportuno per scatenare
l’attacco. Eleonora mi batté sul tempo.
Nello stringerla a me, notai che il suo
corpo era davvero molto magro, ma al tempo stesso non privo di qualche
piacevole rotondità nei punti strategici. Ancora più sorprendente fu la dolce
corposità dei seni, i cui capezzoli aguzzi (avevo già notato, fin da quando mi
aveva aperto la porta dell’appartamento, che non portava alcun reggiseno) mi
diedero silente e al tempo stesso eloquente conferma che la giovane donna era
in preda a una forte eccitazione sessuale.
Ci volle un attimo ad aprire
l’appartamento. Cercai di portare Eleonora al piano di sopra, nella stanza che
mi aveva consentito di utilizzare, facendole presente che il letto era più
ampio e dunque più comodo. Ma lei non volle sentire ragione e quasi mi trascinò
nella sua stanza, dove il letto era certamente più piccolo, ma dove non c’era
alcuna possibilità che la nostra tensione erotica venisse in qualche modo
disturbata o distratta da fattori esterni.
Non ci feci più caso, cessai di rivolgere
la mia attenzione a questi fattori distraenti, e mi concentrai su Eleonora: in
me si era acceso un forte desiderio di possesso e ora l’unica cosa che mi
preoccupava era il poterla penetrare il più presto possibile, profondamente e
irresistibilmente. Questa è sempre stata la mia mentalità, il mio modo di
essere, anche se solo a partire da una certa età in avanti ero riuscito a
esplicarlo compiutamente. E, da quando mi ero reso conto che, con molte donne,
esso costituiva un fattore di vantaggio, piuttosto che di disturbo, avevo
cominciato a praticarlo con sempre maggiore insistenza.
Non ci spogliammo in qualche forma
organica, se così si può dire, ma ci liberammo reciprocamente degli abiti quasi
con furia, tanto era il desiderio che si era impadronito di noi. Io, tra
l’altro, ero decisamente più vestito di Eleonora, la quale – come già accennato
– sotto il pullover bianco non indossava niente e sotto i leggins portava un
semplice paio di mutandine di pizzo nero.
Il vederla completamente nuda mi turbò
non poco, non per la bellezza in sé, che pure era notevole, ma per quel suo
assoluto corrispondere al mio ideale estetico di femminilità, per quella sua
forma fisica così completamente archetipica, ai miei occhi.
Forse sarei stato più prudente, in altre
circostanze, se non mi fossi trovato in un letto insieme al mio ideale estetico
di femminilità. Mi era successo così raramente, nel corso della mia vita, che
la cosa mi fece veramente perdere il mio autocontrollo, in genere assai spiccato.
Un altro fattore che mi immerse in una
dimensione onirica, molto più che reale, fu la sua capacità di gestire il suo
corpo nudo con la stessa naturale eleganza con cui lo aveva gestito da vestita:
era in preda a un evidente appetito sessuale, ma riusciva ad essere egualmente
composta ed elegante.
Last
but not least, la sua vagina era ricoperta da un vello pubico molto scuro,
che pareva frutto di attente cure, un fattore che ha sempre sollecitato la mia
attenzione e solleticato i miei sensi, perché ho sempre pensato – non so se e
quanto a ragione – che la cura di esso sia tipico delle donne che intendono
farne uso, non divieto.
Fortemente eccitato da questo effluvio
di pensieri, ebbi un’erezione alquanto marcata e naturale, che facilitò ovviamente
l’avvio e il pieno sviluppo del nostro rapporto sessuale. Eleonora si avvinghiò
letteralmente a me, graffiandomi più volte la schiena, ma io stesso era in
preda a una tale esaltazione da sentire solo una minima parte del dolore che mi
veniva procurato.
Abbastanza in breve l’eccitazione del
rapporto si fece tale per cui sentii che avrei potuto avere un’eiaculazione da
un momento all’altro e cercai di farlo presente a Eleonora, perché il nostro
non era stato, fino a quel momento, un rapporto protetto. Ma lei spense il mio in fondo maldestro tentativo di avvertimento con una specie di urlo
soffocato e al tempo stesso quasi implorante: “Vienimi dentro, vienimi
dentro!”.
Fu quello che feci, con intensità e
risultato decisamente superiore alla mia media degli ultimi anni, in qualche
modo condizionata dal lento ma inarrestabile declinare dell’età.
Eleonora parve apprezzare molto
l’abbondante flusso che la inondò ed ebbe a sua volta un orgasmo profondo,
accompagnato da sospiri e lamenti, fortunatamente di intensità sonora
relativamente contenuta.
A mia volta, completamente svuotato, mi
sentii di colpo quasi totalmente privo di energie e mi abbandonai su di lei,
lasciando scivolare il mio viso sui suoi bei seni.
Non è facile valutare quanto tempo
rimanemmo in quella posizione. A me parve un periodo lunghissimo, durante il
quale l’unica cosa che riuscii nitidamente a percepire fu che Eleonora chiuse
progressivamente le gambe, con movimenti quasi impercettibili, probabilmente
intenta a cercare di mascherare quanto le avesse allargate nel momento della
massima acmé.
Ad un certo punto, prese a carezzarmi
amorevolmente la nuca, come se volesse in qualche modo ringraziarmi per il
piacere che le avevo dato. La cosa mi fece piacere, anzi forse mi intenerì, e
abbassò ulteriormente le mie difese.
Passarono circa dieci minuti, forse più,
poi Eleonora mi spinse dolcemente di lato, come se volesse liberarsi del mio
peso sul suo corpo e alzarsi.
Ovviamente la lasciai fare.
“Tu pensi che io sia una donna
strana?”, mi chiese a bruciapelo.
“Dovrei?”, fu la mia risposta.
“Intendo dire se pensavi che la serata si
sarebbe conclusa così?”.
“No di certo, inizialmente; poi però ho
incominciato a sperarlo”.
“Sperarlo…?”, esclamò lei con un vago
sorriso di degnazione.
“Sperarlo!”, confermai io.
“Sei scaltro e ingenuo al tempo stesso”
– commentò lei – “Hai colto l’attimo, ma avresti anche potuto mentirmi,
fornendomi questa risposta a posteriori”.
“Per quale ragione avrei dovuto?” –
obiettai io – “la mia filosofia è sempre ispirata al carpe diem”.
“Sai” – disse lei – facendosi di colpo
molto seria, “io sono strana, molto strana”.
“Una splendida dote!”, commentai io, tra
il serio e il faceto.
Eleonora non rispose: si alzò
bruscamente dal letto, mostrandosi per un attimo in tutto l’assoluto splendore
della sua nudità, e uscì dalla stanza.
Rimasi vagamente interdetto, ma mi
sentivo totalmente svuotato dopo quella fantastica eiaculazione, per cui rimasi
adagiato nel letto e mi girai sul fianco, dando le spalle alla porta. Il forte
scorrere di acqua dal bagno adiacente per certi versi mi tranquillizzò e mi
sorpresi a pensare – con una certa ironia – come anche nei rapporti più intimi
sia facile passare dalle fasi di “umano” a quelle di “troppo umano”… La
riflessione mi divertì: da bravo narciso, mi immerse nell’autocompiacimento…
Non so dire quanto tempo passò, forse un
quarto d’ora, forse più. Non ci badai. Il mio animo era invaso da una piacevole
sensazione, quella che deriva dall’aver appena posseduto, con estrema
intensità, una donna che a me pareva di rara bellezza. Era tale constatazione a
rendermi felice, poiché era forse una delle rarissime volte, nel corso della
mia vita, in cui avevo potuto pienamente abbandonarmi al soddisfacimento
estetico, e non solo a quello emotivo. A un soggetto come me, ossessionato dall’estetica,
quella constatazione dava un senso di raggiunta completezza.
Eleonora sgattaiolò all’interno della
stanza e ritornò nel letto. Sentii il suo corpo nudo contro il mio, e me ne
compiacqui. Ero girato sul fianco destro e mi sorpresi sentendola salirmi a
cavalcioni e schiacciarmi a faccia in giù. La posizione era assolutamente
invitante, per cui portai le braccia all’indietro e con le mani cominciai a
carezzare le sue cosce allargate, facendole progressivamente convergere verso
la vagina.
Eleonora mi fermò con un gesto imperioso
e mi disse: “Ho un’abitudine consolidata: chiunque mi scopa paga un pegno”.
Rimasi vagamente sorpreso dalla
volgarità del suo linguaggio, alquanto inabituale per lei, ma – visto che poco
prima aveva accennato al fatto che era “strana, molto strana” – non ci feci
troppo caso e chiesi ironicamente: “ah sì, e qual è?”.
“Questa!”, fu la sua risposta,
accompagnata da un rapido gesto con cui, approfittando del fatto che avevo
entrambe le mani a pochi centimetri dalla sua vagina, me le ammanettò dietro la
schiena.
Rimasi alquanto sorpreso: non avevo
sentito rumori metallici né avevo avuto un qualche sentore della situazione,
visto che avevo costantemente voltato le spalle ad Eleonora. Tuttavia, non me
ne preoccupai. Non ero nuovo a giochetti erotici di varia natura e un po’ di
costrizione come dolce punizione per aver penetrato a fondo Eleonora mi pareva
un prezzo assolutamente accettabile da pagare.
La costrizione erotica, del resto,
quando non è frutto di maldestri esercizi da repressi, rappresenta
essenzialmente il consolidamento di un’asimmetria fattuale che non fa altro che
dare rappresentazione simbolica a un’asimmetria psicologica: il Servant si concede al Master di fatto volontariamente, alla
ricerca di simbolismi e aperture reciproche che sono essenzialmente intese a
sviluppare e potenziare intimità e complicità.
Eleonora diede subito prova di non essere
in alcun modo digiuna di tali meccanismi e, sapendo che ero impossibilitato a
reagire, cominciò a sottoporre il mio corpo a ogni tipo di trattamenti, dal
semplice massaggio ai tentativi di vera e propria penetrazione. La maestria con
cui si muoveva mi lasciò interdetto, ma non avevo alcuna volontà, prima ancora
che alcuna possibilità, di farla smettere. E mi sentivo incredibilmente bene,
in quella sensazione di totale abbandono a lei. Ero svuotato di pensieri e,
dopo la forte eiaculazione, anche di energie. Lasciavo che facesse tutto lei,
limitandomi ad ansimare quando la sua carica erotica si faceva maggiormente
irresistibile.
Quella situazione di beatitudine venne
rotta, dopo una decina di minuti, dalla voce di Eleonora, la quale, sempre
stando a cavalcioni o sdraiata su di me, mi chiese bruscamente: “per quale
motivo lasciasti Alice, mia madre, tanti anni fa?”
“E’ lungo da spiegare, Eleonora” –
risposi – “Ci furono incomprensioni”.
“Perché non le rispondesti mai, quando
ti scrisse che era incinta?”.
Rimasi assolutamente sorpreso da questa
domanda, che mi apriva scenari che assolutamente non conoscevo e non mi
parevano in alcun modo credibili: “Ti sbagli profondamente, Eleonora. Alice non
mi ha mai scritto di essere incinta, tanto meno mi ha chiesto aiuto, altrimenti
certo non glielo avrei rifiutato. Abbiamo avuto alcuni aspri confronti, poi ci
siamo chiariti, poi lei è progressivamente scomparsa del tutto”.
“Lo sai che sono tua figlia?”
Questa affermazione mi colpì come una
staffilata. Cercai di raddrizzarmi, di girarmi verso Eleonora, ma non ci
riuscii, ammanettato com’ero e con tutto il peso del suo corpo a gravare sul
mio.
“Cosa stai dicendo, cosa stai dicendo?
Alice non mi ha mai detto di essere incinta, al termine del nostro rapporto”.
“Non te lo ha detto perché non voleva
dirtelo, perché non si fidava di te, perché aveva capito che le avresti
procurato solo guai e dispiaceri, ma era incinta di te, e io sono tua figlia.
Se poni mente all’anno in cui vi siete lasciati, il 1980, e all’età che ho io,
35 anni, i conti tornano”.
Ho una mentalità molto diversa dalla
media, e di certo sono alquanto cinico, per cui non rimasi inorridito, ma si
fece largo nel mio animo una considerazione mia tipica: dopo tutto, nel mio
ricco patrimonio di esperienze una relazione incestuosa, un rapporto sessuale
con una figlia, mi mancava e - che fosse vero o no quello che Eleonora mi stava
raccontando - la situazione era realmente intrigante. Non capita a tutti, del
resto, di vivere situazioni del genere…
Non mi venne in mente nulla di meglio
che fare dell’ironia: “E quale sarebbe, a questo punto, il senso di tutta
questa messa in scena che tu e probabilmente tua madre avete ordito?”
La risposta
di Eleonora fu pronta, precisa, netta, inequivocabile: “Perché abbiamo deciso
di ucciderti e mamma mi ha detto che questo sarebbe stato il modo più semplice
per farlo”.
Per un attimo, ma solo per un attimo,
pensai a un atroce scherzo a mio carico, ma Eleonora si abbandonò sulla mia schiena,
affiancò il suo volto al mio, schiacciato sul cuscino e mi riservò uno sguardo
carico d’odio, che mi lasciò pochi dubbi su quello che mi attendeva.
“Hai ingravidato mia madre, non ti sei
mai più fatto vedere e io sono cresciuta senza un padre, quanto meno senza un
padre naturale. Sei un uomo odioso, cosa credi di meritare?”.
Avrei potuto abbozzare una linea di
difesa, avrei potuto cercare di dissuaderla, avrei potuto dirle che non sentivo
di avere le colpe che lei e sua madre mi attribuivano, ma ero già da qualche
anno alla ricerca di una via d’uscita da un mondo e da una vita che erano fatti
di infelicità, tristezze, insoddisfazioni, insuccessi, disastri personali e professionali.
Aveva ancora un senso, per me, vivere?
No, nessuno. La via d’uscita che Alice ed Eleonora mi offrivano era la
migliore, la più soddisfacente, la meno “normale” cui potessi ambire. Nudo,
ammanettato, in posizione ridicola, ma al tempo stesso al culmine di un’avventura
vera e di un rapporto incestuoso che, come exit
strategy da una vita sbagliata non era neppure male, e per nulla banale.
Dissi ad Eleonora: “Fai quello che devi
fare, allora” e con quel poco di movimento che mi era concesso alle mani le
penetrai con alcune dita la vagina, titillandogliela a fondo.
Quello che avvenne dopo non mi interessa
e, a quel punto, non aveva più alcun significato per me. Da tempo cercavo la
mia liberazione da una vita che odiavo. Eleonora, molto graziosamente, me la
procurò. Se c’è un’estetica della morte, devo ammettere che quella soluzione mi
piacque.
P. V.