Mi piacciono le persone animate da passione, da un fuoco interiore, da una fiamma che li alimenta, talvolta fino a bruciarli. Detesto le persone che cercano la serenità. In genere sono ricchi e annoiati, per nascita, che ricercano la loro condizione originaria, pensando e sperando di poterla riprodurre in eterno. Io amo invece chi si pone degli obiettivi, chi è animato da un fuoco interiore che lo spinge ad andare sempre al di là di ciò che ha ottenuto. Fin da bambino, sono stato profondamente colpito dall'immagine di Alessandro Magno che, arrivato ai confini dell'India, piange... perché non ci sono più terre da conquistare!!
Io sono uguale a lui, nel mio piccolo. E, se raggiungo un obiettivo, trenta secondi dopo averlo raggiunto sono alla ricerca di un altro. Ergo non sono sereno, sono perennemente inquieto, perennemente alla ricerca di qualcosa. La cosa mi è stata rimproverata, anche di recente, invitandomi a essere più "sereno". Ma a me la serenità non interessa, è cosa da gente sazia, mentre io ho sempre fame, di tutto e di tutti.
Ecco perché mi piace Antonio Conte. L'uomo, in apparenza, è mille miglia lontano da me: tutt'altro che intellettuale, con scarsa dimestichezza con la lingua italiana, affetto da forme risibili di superstizione paracristiana. Tuttavia, ha un fuoco dentro che lo divora, un'ossessione. Nel suo caso, la vittoria. Pensate a come fosse la Juventus solo 16 mesi fa, e a come è ora. All'epoca, la squadra bianconera era sprofondata in uno dei peggiori periodi della sua storia più che centenaria, senza identità, senza idee, senza progetti. Oggi, dopo un così breve lasso di tempo, è ritornata ad essere una delle più importanti squadre di calcio d'Europa e, nel frattempo, ha vinto anche uno scudetto.
Antonio Conte non credo nasca ricco, e nemmeno borghese. Nasce in una di quelle condizioni familiari ed esistenziali dove, giorno dopo giorno, another one bites the dust. Il gusto della polvere, se uno l'ha provato, non è dei più piacevoli, posso garantirlo. Ma è altamente pedagogico, poiché insegna più una sconfitta di cento vittorie. Così come è altamente pedagogico il senso di fragilità, di provvisorietà, tipico di tutte le povertà. Non ci sono papà che provvedono, famiglie benevolenti che pagano, capitali di lunga data ai quali attingere. Non c'è nemmeno uno status, una condizione sociale nella quale specchiarsi. Ci siamo solo noi stessi.
Da una condizione del genere non si esce, come fanno i ricchi e i borghesi altolocati, con la cooptazione, la rete relazionale, i favori reciproci, le conoscenze. Si esce soltanto con la rabbia che uno cova in corpo (niente "serenità", dunque...) e con il "trionfo della volontà", la propria. Non a caso, tutti coloro che vivono tale condizione sono perennemente in lotta con il mondo, spesso e volentieri lo sentono ostile, e non suscitano sentimenti neutrali: o sono odiatissimi o amatissimi, oppure sperimentano in sequenza i due sentimenti testé citati: dapprima amatissimi, poi odiatissimi; o viceversa).
Alla base di tutti questi comportamenti c'è il pathos, la passione interiore che spinge una persona ad avere ragione di tutti gli ostacoli che la vita gli frappone, animata da un unico obiettivo, affermare il proprio Sé, il proprio Ego smisurato, la propria identità.
Che cosa ha cambiato la Juventus, da quello che era a quello che è diventata, nel giro di soli 16 mesi? Una passione sfrenata, disperata e disperante, concentrata perennemente su se stessa e sui propri obiettivi. Niente serate con gli amici, niente conversazioni fatue, niente "brindisi felici". Solo una passione ossessiva, allucinata, allucinante. Una condizione patologica che diventa fisiologica e che, nel farlo, interpreta al meglio lo spirito, il senso ultimo della modernità, che è appunto patologia, non fisiologia.
Questa esasperazione si percepisce tangibilmente in tutto: nell'intensità degli allenamenti, nell'organizzazione tattica, nell'aggressività che pervade il gioco della squadra, nello spirito che ne ha trasformato le prestazioni sportive.
La logica di tutto questo è sempre la medesima, ed è ovviamente una logica giacobina: "La guerre de la liberté doit etre faite avec colère", come affermò a suo tempo Louis Antoine de Saint Just. Citazione forse troppo "alta", per il calcio, ma necessaria, in quanto esemplare e paradigmatica. Se non si è nati contenti di se stessi e del proprio status, se si cerca di migliorare, sempre, la vita diventa un lungo "stato di allucinazione", per andare sempre un po' più in là. Di che cosa si dovrebbe essere contenti, del resto? Di che cosa si potrebbe essere "sereni"? E perché, poi? Esiste forse un obbligo di "serenità"? Quest'ultima è riservata, in genere, ai beati possidentes. Ma a quelli che non possiedono? E ancora: una volta che tale possesso è acquisito, chi dice basta, quando, e - soprattutto - perché?
La verità è che il desiderio di vittoria, il perseguimento coerente della medesima, sono frutto di un impegno diuturno e di una condizione patologica, non fisiologica. Di un messianismo interiore che deve essere talmente forte da poter essere trasmesso agli altri. I grandi allenatori, come i grandi politici o i grandi condottieri, sono tutti così, perché la normalità e la serenità possono servire a chi già ha, ma sono del tutto inutili, anzi controproducenti, per chi non ha. Nessun grande obiettivo può essere raggiunto senza un fortissimo stimolo interiore, senza una volontà di vittoria che ci divori interiormente. Le grandi imprese richiedono grandi interpreti, grandi idee, grandi sacrifici e grande convinzione. Non c'è serenità che aiuti a conseguirle. Serve passione, una passione formidabile. E chi la nutre non cerca la vittoria per gioire, ma per pensare alla vittoria successiva. Non vuole trarre godimento dalla vita, vuole vincere.
Piero Visani