Leggo, sul Corriere della Sera di oggi, un invito di Giuseppe De Rita ad espungere, dalle valutazioni politiche diffuse in questo paese (scritto rigorosamente minuscolo, almeno fino che non troverò un carattere - lo chiamerò il Times Shit Roman - in grado di "degnamente" rappresentarlo...), la componente della ferocia. A parte il fatto che sono vagamente renitente a prendere lezioni di etica da quei boiardi di Stato che si trasmettono le cariche di padre in figlio (come nei sistemi democratici più evoluti dell'Ancien Régime...), le riflessioni dell'illustre "tuttologo" hanno luogo in margine all'autentico diluvio di critiche che si sarebbe abbattuto, al momento della sua elezione, sulla figura del neo-presidente della Repubblica, il quale sarebbe stato oggetto, specie sulla Rete, delle accuse più infamanti.
Riflettendo su questi effluvi di ferocia, De Rita li condanna perché in fondo nocivi non solo a chi li subisce, ma anche a chi li fa.
Non sono d'accordo e cerco di spiegarmi: come molti, in questo orribile paese, sono stato oggetto di varie forme di ferocia, pubbliche e private. So che mi è stato molto nocivo subirle. Non sono per nulla convinto, per contro, che mi sarebbe altrettanto nocivo cercare di farle subire a chi le ha inferte a me. So che essere oggetto di ferocia fa male, molto. Tuttavia penso che restituirla, che farne oggetto chi l'ha inferta a me non sia assolutamente NOCIVO PER ME, SEMMAI PER LUI/LORO.
Ecco un solo, unico, fantasticamente convincente motivo per cercare di restituirla, quella ferocia. Dovrei essere vulnerato pesantemente e, al tempo stesso, comportarmi pure da pecora? Suvvia, se c'è una cosa, tra le pochissime, che mi tiene gagliardamente in vita è la speranza di poter restituire un giorno - e con gli interessi - la ferocia di cui sono stato oggetto, o di lasciarne il compito a chi possa farlo per me. Tutto il resto mi è assolutamente indifferente.
Piero Visani
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