giovedì 17 marzo 2016

La metafora del calcio

       Come ha spiegato molto bene uno studioso tedesco, Wolfgang Schivelbusch, in un saggio assai rinomato (La cultura dei vinti, trad. it., Il Mulino, Bologna, 2006), esiste una mitologia della sconfitta che viene agita nel momento in cui si tratta di spiegare un disastro apparentemente inspiegabile e, soprattutto, quando si tratta di giustificare un insuccesso che probabilmente non ci si attendeva. La conseguente "elaborazione del lutto" passa attraverso fasi successive, dalle quali il passato esce riletto alla luce della convinzione di essere "i vincitori morali" di una guerra appena persa e ne nasce una "mitologia della sconfitta" che può servire - come nel caso della Confederazione sudista - a creare una visione del passato che dia il senso di una "superiorità morale", vera o presunta che sia, oppure, come nel caso della Germania dopo la Grande Guerra, a gettare le basi di una révanche.
       In Italia, avendo noi da tempo perduto punti di riferimento più elevati, le macroscopiche distorsioni della società nazionale vengono in genere coperte, ma al tempo stesso spiegate, con continui riferimenti alla passione collettiva per il gioco del calcio, senza pensare nemmeno per un attimo che quest'ultima è in realtà una forma di esplicazione assai più eloquente di altre.
       Si pensi a come si è evoluto questo sport nel corso del tempo, dagli anni Trenta alle grandi innovazioni degli anni Cinquanta, dal "gioco all'italiana" (leggasi "catenaccio") al formidabile salto qualitativo e concettuale del calcio olandese degli anni Settanta, dalla progressiva velocizzazione del gioco all'inserimento al suo interno di pratiche derivanti da altri sport (come il basket o l'hockey), basate sul possesso di palla e l'ossessione tattica.
       Un'evoluzione assolutamente normale, che ha investito tutte le altre discipline sportive e che è basata essenzialmente sulla velocità, la fisicità e l'esasperazione tattica di tutte le pratiche presenti al suo interno.
       Su questo sfondo, a parte il magnifico esempio (anche a livello di pedagogia collettiva e individuale) di Arrigo Sacchi e di qualche suo discepolo, come Antonio Conte, il calcio nazionale - esattamente come la società nazionale in moltissimi altri campi - ha continuato a fare finta di nulla ed a bearsi di luoghi comuni come "la palla è rotonda", "le partite sono decise da episodi", "l'arbitraggio era ostile", etc. etc.
       Intendiamoci, la situazione è cambiata e sta cambiando anche da noi, con l'emergere di allenatori - giovani e meno giovani (da Sarri a Di Francesco) - che detestano il gioco speculativo e cercano di imporre il proprio, consapevoli del fatto che oggi il cosiddetto gioco di rimessa, o all'italiana, si pratica al più nelle rimesse, cioè nelle partitelle che i garzoni di un'autorimessa possono giocare, a fine giornata, nel loro luogo di lavoro, come alternativa meno costosa all'affitto di un campo di calcetto.
       Tra le componenti più importanti della modernità ci sono la complessità, la velocità, la cura maniacale dei dettagli, della precisione dei passaggi, dell'intensità degli allenamenti e del gioco. A ciò la scuola italica contrappone il suo sempiterno spontaneismo, quello che serve ad incassare molto e a lavorare poco, mascherandosi dietro consolidati luoghi comuni, che consentono e al tempo stesso giustificano poco allenamento, poca precisione, improvvisazione, estemporaneità.
      I dati desumibili dalla partite di ieri - Bayern Monaco contro Juventus - sono tragicomici, in tal senso: 77% di possesso di palla del vincitore (il Bayern) contro un ridicolo 23% dello sconfitto (la Juve), che credo sia un record assoluto e che trasformi la partita, a livello di percentuali, in un match tra Bayern e Lanciano (con tutto il rispetto per i tifosi del Lanciano, sicuramente più rispettati, dalla loro società, di quelli della Juve...). Tuttavia, scarsa attenzione è prestata a questo dato - frutto di un lavoro assiduo, che richiede allenamenti quotidiani molto intensi - in favore di variabili che sono sempre esistite, come l'errore arbitrale, la fortuna/sfortuna e, naturalmente, l'ostilità del "Palazzo" - perché, per spiegare le nostre sconfitte, occorre sempre poter incolpare un oscuro deus ex-machina.
       Arrigo Sacchi ha sempre cercato di spiegare, con autentica vocazione da missionario, gli errori e soprattutto gli orrori che stanno alla base di questa visione distorta, a cominciare dall'inesistenza di una cultura collettiva del lavoro e dei benefici che essa, a gioco lungo, è in grado di produrre sulla mentalità individuale e collettiva. Sfortunatamente per noi, ha avuto poca fortuna e meno ascolto. E' prevalsa invece - come in tutta la cultura nazionale - una visione speculativa che non produce niente: stentate vittorie da 1-0 e conservatorismo assoluto in tutti i campi, in modo da non dover dedicare troppo tempo ad allenamenti, analisi tattiche, etc., e da non sottrarlo all'impegno da profondere nello spendere i troppi soldi guadagnati, dedicandosi ad altro, più divertente.
      Il calcio - e qui so di sfondare una porta aperta - è una terrificante metafora della cultura e della politica nazionali: fare il meno possibile, ottenere il massimo possibile e - quando la realtà si impone con tutto il suo peso - poter dare la colpa a qualcun altro, quando la colpa è solo nostra, è il rifiuto della modernità, è la pervicace ostinazione a non cambiare MAI le nostre cattive abitudini. Gli Arrigo Sacchi (e quelli come lui) ci fanno una terribile paura, in tutti i campi; meglio lasciarli predicare nel deserto e correre - tutti "Allegri"... - dietro a qualche conservatore ad oltranza, apologeta del buonsenso e del saper perdere partite già vinte, per puro misoneismo e incapacità di guardare al di là del proprio naso.
      Alla stessa stregua, in politica, là dove avremmo bisogno di un Winston Churchill che ci prometta solo "lacrime, sudore e sangue", ci ritroviamo con soggetti alla Berlusconi o alla Renzi, che promettono di tutto e che le tre voci testé citate ce le hanno già portate a casa... Più metafora di così...

                   Piero Visani



P.S.: L'immagine, deliberatamente scelta, indica dove si arriva, alla fine, con scelte del genere.