1. Ero arrivato al mare con qualche giorno di anticipo, rispetto all'inizio di luglio. Probabilmente il 29 giugno, San Pietro, data che in casa veniva celebrata come il mio onomastico.
Erano ormai cinque anni che mi recavo a Varigotti, piccolo paese stretto tra Noli e Finale Ligure, in provincia di Savona. Avevo 9 anni. Ne avrei compiuti 10 il 25 luglio.
La casa che ci ospitava mi pare si chiamasse "Le due palme" e stava su un'erta salita, raggiungibile solo a piedi. La proprietaria - la signora Ada - ci affittava il suo appartamento per tutto il mese di luglio ormai da parecchi anni.
Varigotti mi piaceva. Ci venivano tutti i miei amichetti estivi, con la stessa regolarità con cui ci venivo io. Di fatto, dopo che le scuole chiudevano per la pausa estiva, in me si accendeva l'interesse per quel mese di vacanza, insolito, più libero, condotto senza particolari condizionamenti, a giocare e nuotare con gli amici.
Non ero ancora granché sessuato e tanto meno politicizzato, ma in quel luglio 1960 l'atmosfera era elettrica. Mio padre, che in genere veniva al mare solo per i fine settimana, si spostava spesso a Genova, dove vivevano molti suoi parenti. Il 30 giugno, infatti, erano successi dei gravissimi incidenti nel centro della città, con scontri violentissimi tra manifestanti e polizia, che avevano suscitato una profonda impressione in tutta Italia. Questi scontri si erano ripetuti il 6 luglio a Roma, a Porta San Paolo, quando i carabinieri a cavallo avevano caricato la folla di manifestanti di sinistra guidati dal tenente colonnello Raimondo d'Inzeo, di lì a breve destinato a vincere la medaglia d'oro di equitazione alle Olimpiadi. Il culmine di questo crescendo di violenze si era avuto il giorno successivo a Reggio Emilia, nel corso di una manifestazione sindacale, quando 5 operai erano stati uccisi dalla polizia, suscitando un'emozione immensa.
Non avevo grandi conoscenze politiche, ma vedevo mio padre nervoso, vedevo il telegiornale della sera e leggevo tutti i giorni "La Stampa", il quotidiano di Torino. Lo leggevo ormai dai fatti di Algeria del 1958 e spesso lo divoravo fino all'ultima riga. La dimensione politico-militare è sempre stata al vertice dei miei interessi, fin da giovanissimo.
Ero appassionato di cose militari e, anche se ancora non lo sapevo, ero pure molto appassionato di politica, ma senza avere un orientamento preciso. Più correttamente, potrei dire che la dimensione conflittuale era per me consustanziale. Tutto ciò che significava conflitto per me era di estrema importanza e accendeva la mia attenzione.
Ricordo che sulla via Aurelia (allora non c'era ancora l'autostrada Genova - Ventimiglia) si susseguivano autocolonne della Celere, che procedevano lente nel traffico concitato della litoranea. Grande era il contrasto tra questi segnali di tensione e la vita apparentemente spensierata che la gente conduceva sulle spiagge, guardando i poliziotti e i carabinieri passare sui loro autocarri, ma preoccupandosi soprattutto di divertirsi.
2. Non so come, non so perché, forse per le attenzioni che entrambi dedicavamo a una nostra amichetta di spiaggia, ai bagni "Liliana" che frequentavamo quotidianamente, entrai in rotta di collisione con un bulletto probabilmente anche lui proveniente dal Piemonte, ma non da Torino come me. Questo ragazzetto, che aveva un anno o forse due più di me, mi aveva preso di mira, sicuramente per mettermi in cattiva luce agli occhi di Marinella, il comune oggetto del nostro interesse, forse dei nostri primi desideri. Io ero convinto di essere il suo preferito, ma forse lei sentiva il fascino di una persona un po' più grande, più smaliziata, proveniente da un ceto sociale inferiore al mio ma sicuramente più a conoscenza della vita di quanto non lo fossi io.
Non feci nulla per impedire questo spostamento di simpatie. Fin da bambino, ho sempre avuto un'altissima opinione di me stesso, per cui, se Marinella voleva preferirmi un altro, non sarei certo stato io a fermarla.
Il mio rivale, di cui non ricordo il nome, non so quanto avesse percepito il mutamento di situazione in atto; probabilmente non molto, perché il suo unico obiettivo divenne subito quello di mettermi fuori gioco e in cattiva luce agli occhi di Marinella. Cominciò così a coprirmi di lazzi e frizzi, e a farmi oggetto di provocazioni, cui mi guardai bene dal rispondere, abituato com'ero (e sono) a farmi soprattutto i fatti miei.
Sulla spiaggia, e anche su un campetto un po' più regolare situato proprio alle spalle dei nostri bagni, eravamo soliti sfidarci in lunghissime partite di calcio, più improvvisate sull'arenile e più strutturate sul campetto regolare. Intorno alla metà del mese, a qualche ragazzo più grande venne in mente di organizzare un torneo tra le squadrette dei vari bagni in cui era divisa la spiaggia e così ebbe inizio la corsa alla composizione delle formazioni. Nel bel mezzo di una bufera, di cui sapevamo poco e ci importava meno (anche se a me piaceva molto respirare quell'aria carica di tensioni conflittuali), noi cominciammo a preoccuparci del "Torneo dei Bagni"...
Non avevo alcuna speranza di poter ricoprire un ruolo di movimento, e neppure mi interessava. Giocavo a calcio dai tempi della prima elementare, ma sempre e solo come portiere, l'unico ruolo che si addicesse al mio carattere da "irregolare". All'epoca, poi, il portiere era molto meno integrato nel resto della squadra di quanto accadde a partire dall'avvento del calcio olandese, e a me quella solitudine di gioco piaceva. Non ero ancora approdato alla solitudine esistenziale (quella nascerà al momento della pubertà e delle prime cocenti delusioni con l'altro sesso), ma ero già un lone rider, a modo mio.
Ero ancora piccolino, sotto il profilo fisico, per difendere una porta regolare da calcio, ma gli organizzatori avevano deciso di ridurre le dimensioni del campo e dunque anche quelle delle porte, e così mi ritrovai portiere titolare della squadra dei "Bagni Liliana".
Tutto filò liscio fino alla fase finale, dopo un classico "girone all'italiana": presi non pochi gol, ma i miei compagni di squadra ne fecero di più, per cui ci ritrovammo tra le quattro semifinaliste.
La prima semifinale si svolse nel torrido tardo pomeriggio di un luglio che ricordo come davvero molto caldo. Nella squadra avversaria giocava, come mediano, il bulletto che aveva buttato gli occhi su Marinella. I nostri avversari subirono un gol da parte nostra intorno alla metà del primo tempo e cominciarono ad intensificare progressivamente gli attacchi per cercare di ottenere il pareggio. Non erano attacchi particolarmente irresistibili, il caldo stava fiaccando tutti, ma fu proprio per stanchezza da calore che un mio compagno di squadra commise un ingenuo fallo in area, che l'improvvisato arbitro che dirigeva la nostra sfida non poté che punire con un rigore.
Non ho mai avuto paura dei calci di rigore e quella solitudine che si determinava quando ero lì davanti a chi si apprestava a tirarli era una condizione che, anche se ancora non potevo saperlo, avrei provato - più o meno amaramente - per il resto della mia vita. Ma non mi faceva paura. Sentivo tutti gli occhi puntati su di me, ma ho sempre pensato (e lo pensavo già allora) che i calci di rigore fossero parabili.
La mia tecnica consisteva nel partire all'ultimo, senza concedere all'avversario il vantaggio di scegliere un lato, destro o sinistro che fosse. Aspettavo che fosse lui a fare la prima mossa e a "battezzare" un angolo; io non mi muovevo.
Fui fortunato. C'era un folto pubblico (tra cui ovviamente Marinella) e la cosa mi caricò psicologicamente, senza contare che partivo già avvantaggiato dal fatto che non avevo nulla da perdere, mentre il mio avversario era costretto a segnare.
Un silenzio innaturale calò per qualche attimo sul campetto, mentre il mio avversario attendeva il fischio dell'arbitro. Non mi mossi, e forse quello lo sorprese, visto che non mi conosceva. Tirò alla mia sinistra (senza pensare che ero e sono mancino); tirò bene, angolato, ma non abbastanza forte, per cui mi distesi e toccai la palla con la punta delle dita, deviandola davanti a me, nella direzione più storta possibile. I miei difensori, tuttavia, non mi coprirono bene e alla palla arrivò per primo, a tutta velocità, il bulletto di cui sopra. E qui accadde l'impensabile: invece che spingere la palla in rete, il ragazzotto si avventò sul pallone, incurante del rischio di spedirlo altissimo. Ma riuscì a fare di peggio: mancò la palla clamorosamente e, nel mancarla, cadde rovinosamente a terra. Fu letteralmente sepolto da una risata generale, liberatoria per i supporter della mia squadra e autenticamente divertita per il pubblico neutrale, sorpreso dalla sua incredibile goffaggine.
3. Quello che accadde nei giorni successivi, è uno dei tanti misteri dell'animo umano. Il rigore non era stato tirato dal bulletto e io non avevo parato la sua ribattuta in rete. Era stato lui a mancarla clamorosamente, facendo ridere mezza Varigotti. Ma io divenni il suo capro espiatorio. Se prima si era limitato agli sfottò, ora puntò direttamente all'aggressione fisica, in un crescendo di minacce verbali che incominciarono a preoccuparmi.
Sono sempre stato un tipo attento. So che cosa si nasconde nell'animo umano, perché conosco bene che cosa si nasconde nel mio. Dunque cominciai a stare alquanto in guardia.
Qualche giorno dopo, intorno alle 15, mentre mi preparavo ad andare da solo in spiaggia, notai una serie di movimenti sospetti nella stradetta che dalla casa delle "Due Palme" portava alla parte bassa del paese. Ero già appassionato di cose militari e in particolare di tattica, per cui salii al primo piano della casa, scelsi la finestra meglio posizionata, ovviamente chiusa data l'ora e il sole accecante, e, da dietro le imposte, verificai che cosa stesse succedendo. Riconobbi subito il bulletto e vidi che aveva messo insieme una squadretta di 4-5 amici, tutti suoi coetanei (dunque un po' più grandi di me), che presidiavano con intenzioni palesemente ostili il sentiero che scendeva verso la spiaggia.
Le loro nozioni tattiche, tuttavia, dovevano essere alquanto primitive, poiché avevano creato una specie di "posto di blocco" lungo la discesa, ma avevano omesso di presidiare un minuscolo sentiero che si staccava sulla destra della stradetta e portava anch'esso in paese. Molto stretto e ripido, era assai più breve e diretto, e consentiva di arrivare rapidamente ai "Bagni Liliana", dove certamente non avrebbero osato aggredirmi in presenza dei bagnini e della mia famiglia. Così, uscito di casa, per qualche metro andai incontro al "posto di blocco" con aria di sfida, come se volessi affrontarlo, poi piegai a tutta velocità a destra, imboccando quella sorta di "via di esfiltrazione". Mi inseguirono, ma non lo conoscevano e non riuscirono assolutamente a raggiungermi prima che arrivassi in spiaggia. Colà, non potendo fare di più, si preoccuparono solo di farmi sapere che la cosa non sarebbe finita lì.
Il giorno dopo, la scena si ripeté, ma questa volta il bulletto e i suoi avevano appresa la piccola lezione tattica che era stata loro impartita e si erano preoccupati di bloccare entrambi i percorsi. Tuttavia, avevano dimenticato che l'entroterra ligure è un dedalo di strade, stradine e stradette, mentre io solo a quello avevo pensato, fin dal pomeriggio precedente, e, con la scusa di accompagnare mia sorella (più vecchia di me di otto anni, dunque già una signorina) a fare una gita, la mattina successiva avevo condotto un'ampia ricognizione del territorio circostante.
Così, quando alle 15 uscii di casa dopo aver verificato la presenza del solito "comitato di accoglienza" a me riservato, invece che scendere verso la spiaggia girai verso il monte e, sebbene inseguito, lavorando di fino in un dedalo di strade e stradette, dopo poco riuscii a far perdere le mie tracce e a ricomparire ai "Bagni Liliana" quando era trascorsa ormai più di un'ora.
Avrei potuto denunciare la cosa a mia madre e mia sorella, ma non era (e non è) nel mio stile. Volevo e dovevo risolvere la cosa da me. Nutrivo (e tuttora nutro) una fede assoluta nel valore persuasivo della violenza, nel senso che non mi interessava in alcun modo convincere il bulletto e i suoi compari ad usare la ragione. Mi interessava soltanto batterli sul loro terreno, esercitare a loro carico una violenza che fosse superiore a quella che essi intendevano esercitare su di me.
Così feci la mia pazzia. Avevo solo dieci anni, per di più ancora da compiere, dunque non potevo essere lucido e freddo più di tanto, ma lo ero nel feroce desiderio di fare male a chi intendeva farne a me.
La sera, approfittando del fatto che sono sempre stato l'ultimo che va a dormire, mi recai nella cucina della casa e scelsi con accuratezza un bel coltello, di quelli per il taglio e la lavorazione della carne, misurandone accuratamente lunghezza e affilatezza della lama. Trovai anche - e fu la mia fortuna - una specie di coltello da campeggio, con tanto di custodia e cintura, e naturalmente la mia scelta cadde su quello.
Il giorno dopo, poco prima delle 15, procedetti alla vestizione: maglietta e calzoncini erano quelli abituali, da mare, anche se la mia scelta cadde su colori scuri, che non causassero rischi di risultare trasparenti. Sotto, però, mi allacciai alla vita quel bel coltello da campeggio, con tanto di cintura.
Uscii di casa alle 15, puntualissimo. Il "comitato di accoglienza" era già posizionato e questa volta non ebbi bisogno di escogitare alcuna manovra di evasione, anzi lo affrontai a muso duro, con la piccola precauzione che, quando fui a qualche metro dal bulletto e dai suoi accoliti, impugnai con fare minaccioso il mio bel coltello affilato. All'epoca, non avevo ancora dato avvio alle mie letture sulla deterrenza, ma il mio gesto mi servì a comprenderne pienamente - qualche anno dopo - l'assoluto valore. Estrarre un oggetto di quel tipo, infatti, ebbe l'effetto di calmare i bollenti spiriti dei miei potenziali aggressori e, nel caso qualcuno avesse avuto voglia di provarci, io l'avevo ben stretto in mano e loro non erano così più grandi di me da poter correre il rischio a cuor leggero. La mia espressione facciale, inoltre, credo fosse abbastanza convincente del fatto che la fase ludica si era esaurita ed ora, in un modo o nell'altro, si stava facendo sul serio.
Il bulletto esitò un attimo. Sicuramente valutò la situazione, le opzioni possibili e che cosa fare per non perdere la faccia davanti ai suoi accoliti e tanto meno davanti a me. Poi ebbe un'intuizione che dovette apparirgli geniale ed esclamò con tono ironico: "ti abbiamo spaventato, eh? Hai portato addirittura un coltello! Ma dai che non ti facciamo niente!"
La soluzione mi parve accettabile, anche perché mi guardai bene dall'assentire alla sua affermazione. Mi limitai a fissarlo con aria di sfida, mentre in cuor mio pensavo che fosse meglio per tutti che la cosa finisse così.
Il bulletto e i suoi se ne andarono sghignazzando e deridendomi, sicuramente contenti di aver trovato una via d'uscita dignitosa. Io li lasciai allontanare, a mia volta sollevato, ma stando bene attento a non dare loro la schiena fino a che non fossero parecchio lontani. Nel frattempo, ma con molta calma, riposi il mio coltello, che poi - una volta tornato a casa - feci in modo di rimettere esattamente al posto da cui l'avevo preso, confidando che nessuno si sarebbe accorto di nulla. E, per il resto di quel torrido mese di luglio, nessuno mi diede più fastidio.
4. Ancora oggi ricordo quella vicenda come la prima che abbia avuto un certo significato per me, la mia psicologia, la mia visione del mondo. Credo mi abbia confortato nel convincimento che, là ove non si arriva con la persuasione, si arriva sicuramente con la violenza o la minaccia di esercitarla. Non sono cambiato: confido molto nel soft e nello smart power, ma, avendo una sfiducia totale nel genere umano, non mi tiro indietro, se è necessario fare ricorso all'hard, di power. Non c'è nulla che influisca di più sulla psicologia di un individuo di ciò che accade nelle fasi di formazione della medesima e io avevo già nitidamente compreso che, di quel mondo che mi vedevo intorno, mi piaceva poco o nulla, e forse oscuramente intuivo che, per come ero fatto, la mia vita non sarebbe stata mai troppo felice. Ma ero pronto ad affrontarla.
Piero Visani
Non avevo alcuna speranza di poter ricoprire un ruolo di movimento, e neppure mi interessava. Giocavo a calcio dai tempi della prima elementare, ma sempre e solo come portiere, l'unico ruolo che si addicesse al mio carattere da "irregolare". All'epoca, poi, il portiere era molto meno integrato nel resto della squadra di quanto accadde a partire dall'avvento del calcio olandese, e a me quella solitudine di gioco piaceva. Non ero ancora approdato alla solitudine esistenziale (quella nascerà al momento della pubertà e delle prime cocenti delusioni con l'altro sesso), ma ero già un lone rider, a modo mio.
Ero ancora piccolino, sotto il profilo fisico, per difendere una porta regolare da calcio, ma gli organizzatori avevano deciso di ridurre le dimensioni del campo e dunque anche quelle delle porte, e così mi ritrovai portiere titolare della squadra dei "Bagni Liliana".
Tutto filò liscio fino alla fase finale, dopo un classico "girone all'italiana": presi non pochi gol, ma i miei compagni di squadra ne fecero di più, per cui ci ritrovammo tra le quattro semifinaliste.
La prima semifinale si svolse nel torrido tardo pomeriggio di un luglio che ricordo come davvero molto caldo. Nella squadra avversaria giocava, come mediano, il bulletto che aveva buttato gli occhi su Marinella. I nostri avversari subirono un gol da parte nostra intorno alla metà del primo tempo e cominciarono ad intensificare progressivamente gli attacchi per cercare di ottenere il pareggio. Non erano attacchi particolarmente irresistibili, il caldo stava fiaccando tutti, ma fu proprio per stanchezza da calore che un mio compagno di squadra commise un ingenuo fallo in area, che l'improvvisato arbitro che dirigeva la nostra sfida non poté che punire con un rigore.
Non ho mai avuto paura dei calci di rigore e quella solitudine che si determinava quando ero lì davanti a chi si apprestava a tirarli era una condizione che, anche se ancora non potevo saperlo, avrei provato - più o meno amaramente - per il resto della mia vita. Ma non mi faceva paura. Sentivo tutti gli occhi puntati su di me, ma ho sempre pensato (e lo pensavo già allora) che i calci di rigore fossero parabili.
La mia tecnica consisteva nel partire all'ultimo, senza concedere all'avversario il vantaggio di scegliere un lato, destro o sinistro che fosse. Aspettavo che fosse lui a fare la prima mossa e a "battezzare" un angolo; io non mi muovevo.
Fui fortunato. C'era un folto pubblico (tra cui ovviamente Marinella) e la cosa mi caricò psicologicamente, senza contare che partivo già avvantaggiato dal fatto che non avevo nulla da perdere, mentre il mio avversario era costretto a segnare.
Un silenzio innaturale calò per qualche attimo sul campetto, mentre il mio avversario attendeva il fischio dell'arbitro. Non mi mossi, e forse quello lo sorprese, visto che non mi conosceva. Tirò alla mia sinistra (senza pensare che ero e sono mancino); tirò bene, angolato, ma non abbastanza forte, per cui mi distesi e toccai la palla con la punta delle dita, deviandola davanti a me, nella direzione più storta possibile. I miei difensori, tuttavia, non mi coprirono bene e alla palla arrivò per primo, a tutta velocità, il bulletto di cui sopra. E qui accadde l'impensabile: invece che spingere la palla in rete, il ragazzotto si avventò sul pallone, incurante del rischio di spedirlo altissimo. Ma riuscì a fare di peggio: mancò la palla clamorosamente e, nel mancarla, cadde rovinosamente a terra. Fu letteralmente sepolto da una risata generale, liberatoria per i supporter della mia squadra e autenticamente divertita per il pubblico neutrale, sorpreso dalla sua incredibile goffaggine.
3. Quello che accadde nei giorni successivi, è uno dei tanti misteri dell'animo umano. Il rigore non era stato tirato dal bulletto e io non avevo parato la sua ribattuta in rete. Era stato lui a mancarla clamorosamente, facendo ridere mezza Varigotti. Ma io divenni il suo capro espiatorio. Se prima si era limitato agli sfottò, ora puntò direttamente all'aggressione fisica, in un crescendo di minacce verbali che incominciarono a preoccuparmi.
Sono sempre stato un tipo attento. So che cosa si nasconde nell'animo umano, perché conosco bene che cosa si nasconde nel mio. Dunque cominciai a stare alquanto in guardia.
Qualche giorno dopo, intorno alle 15, mentre mi preparavo ad andare da solo in spiaggia, notai una serie di movimenti sospetti nella stradetta che dalla casa delle "Due Palme" portava alla parte bassa del paese. Ero già appassionato di cose militari e in particolare di tattica, per cui salii al primo piano della casa, scelsi la finestra meglio posizionata, ovviamente chiusa data l'ora e il sole accecante, e, da dietro le imposte, verificai che cosa stesse succedendo. Riconobbi subito il bulletto e vidi che aveva messo insieme una squadretta di 4-5 amici, tutti suoi coetanei (dunque un po' più grandi di me), che presidiavano con intenzioni palesemente ostili il sentiero che scendeva verso la spiaggia.
Le loro nozioni tattiche, tuttavia, dovevano essere alquanto primitive, poiché avevano creato una specie di "posto di blocco" lungo la discesa, ma avevano omesso di presidiare un minuscolo sentiero che si staccava sulla destra della stradetta e portava anch'esso in paese. Molto stretto e ripido, era assai più breve e diretto, e consentiva di arrivare rapidamente ai "Bagni Liliana", dove certamente non avrebbero osato aggredirmi in presenza dei bagnini e della mia famiglia. Così, uscito di casa, per qualche metro andai incontro al "posto di blocco" con aria di sfida, come se volessi affrontarlo, poi piegai a tutta velocità a destra, imboccando quella sorta di "via di esfiltrazione". Mi inseguirono, ma non lo conoscevano e non riuscirono assolutamente a raggiungermi prima che arrivassi in spiaggia. Colà, non potendo fare di più, si preoccuparono solo di farmi sapere che la cosa non sarebbe finita lì.
Il giorno dopo, la scena si ripeté, ma questa volta il bulletto e i suoi avevano appresa la piccola lezione tattica che era stata loro impartita e si erano preoccupati di bloccare entrambi i percorsi. Tuttavia, avevano dimenticato che l'entroterra ligure è un dedalo di strade, stradine e stradette, mentre io solo a quello avevo pensato, fin dal pomeriggio precedente, e, con la scusa di accompagnare mia sorella (più vecchia di me di otto anni, dunque già una signorina) a fare una gita, la mattina successiva avevo condotto un'ampia ricognizione del territorio circostante.
Così, quando alle 15 uscii di casa dopo aver verificato la presenza del solito "comitato di accoglienza" a me riservato, invece che scendere verso la spiaggia girai verso il monte e, sebbene inseguito, lavorando di fino in un dedalo di strade e stradette, dopo poco riuscii a far perdere le mie tracce e a ricomparire ai "Bagni Liliana" quando era trascorsa ormai più di un'ora.
Avrei potuto denunciare la cosa a mia madre e mia sorella, ma non era (e non è) nel mio stile. Volevo e dovevo risolvere la cosa da me. Nutrivo (e tuttora nutro) una fede assoluta nel valore persuasivo della violenza, nel senso che non mi interessava in alcun modo convincere il bulletto e i suoi compari ad usare la ragione. Mi interessava soltanto batterli sul loro terreno, esercitare a loro carico una violenza che fosse superiore a quella che essi intendevano esercitare su di me.
Così feci la mia pazzia. Avevo solo dieci anni, per di più ancora da compiere, dunque non potevo essere lucido e freddo più di tanto, ma lo ero nel feroce desiderio di fare male a chi intendeva farne a me.
La sera, approfittando del fatto che sono sempre stato l'ultimo che va a dormire, mi recai nella cucina della casa e scelsi con accuratezza un bel coltello, di quelli per il taglio e la lavorazione della carne, misurandone accuratamente lunghezza e affilatezza della lama. Trovai anche - e fu la mia fortuna - una specie di coltello da campeggio, con tanto di custodia e cintura, e naturalmente la mia scelta cadde su quello.
Il giorno dopo, poco prima delle 15, procedetti alla vestizione: maglietta e calzoncini erano quelli abituali, da mare, anche se la mia scelta cadde su colori scuri, che non causassero rischi di risultare trasparenti. Sotto, però, mi allacciai alla vita quel bel coltello da campeggio, con tanto di cintura.
Uscii di casa alle 15, puntualissimo. Il "comitato di accoglienza" era già posizionato e questa volta non ebbi bisogno di escogitare alcuna manovra di evasione, anzi lo affrontai a muso duro, con la piccola precauzione che, quando fui a qualche metro dal bulletto e dai suoi accoliti, impugnai con fare minaccioso il mio bel coltello affilato. All'epoca, non avevo ancora dato avvio alle mie letture sulla deterrenza, ma il mio gesto mi servì a comprenderne pienamente - qualche anno dopo - l'assoluto valore. Estrarre un oggetto di quel tipo, infatti, ebbe l'effetto di calmare i bollenti spiriti dei miei potenziali aggressori e, nel caso qualcuno avesse avuto voglia di provarci, io l'avevo ben stretto in mano e loro non erano così più grandi di me da poter correre il rischio a cuor leggero. La mia espressione facciale, inoltre, credo fosse abbastanza convincente del fatto che la fase ludica si era esaurita ed ora, in un modo o nell'altro, si stava facendo sul serio.
Il bulletto esitò un attimo. Sicuramente valutò la situazione, le opzioni possibili e che cosa fare per non perdere la faccia davanti ai suoi accoliti e tanto meno davanti a me. Poi ebbe un'intuizione che dovette apparirgli geniale ed esclamò con tono ironico: "ti abbiamo spaventato, eh? Hai portato addirittura un coltello! Ma dai che non ti facciamo niente!"
La soluzione mi parve accettabile, anche perché mi guardai bene dall'assentire alla sua affermazione. Mi limitai a fissarlo con aria di sfida, mentre in cuor mio pensavo che fosse meglio per tutti che la cosa finisse così.
Il bulletto e i suoi se ne andarono sghignazzando e deridendomi, sicuramente contenti di aver trovato una via d'uscita dignitosa. Io li lasciai allontanare, a mia volta sollevato, ma stando bene attento a non dare loro la schiena fino a che non fossero parecchio lontani. Nel frattempo, ma con molta calma, riposi il mio coltello, che poi - una volta tornato a casa - feci in modo di rimettere esattamente al posto da cui l'avevo preso, confidando che nessuno si sarebbe accorto di nulla. E, per il resto di quel torrido mese di luglio, nessuno mi diede più fastidio.
4. Ancora oggi ricordo quella vicenda come la prima che abbia avuto un certo significato per me, la mia psicologia, la mia visione del mondo. Credo mi abbia confortato nel convincimento che, là ove non si arriva con la persuasione, si arriva sicuramente con la violenza o la minaccia di esercitarla. Non sono cambiato: confido molto nel soft e nello smart power, ma, avendo una sfiducia totale nel genere umano, non mi tiro indietro, se è necessario fare ricorso all'hard, di power. Non c'è nulla che influisca di più sulla psicologia di un individuo di ciò che accade nelle fasi di formazione della medesima e io avevo già nitidamente compreso che, di quel mondo che mi vedevo intorno, mi piaceva poco o nulla, e forse oscuramente intuivo che, per come ero fatto, la mia vita non sarebbe stata mai troppo felice. Ma ero pronto ad affrontarla.
Piero Visani