Ci sono termini che godono di insolita fortuna e che connotano lunghe fasi
della vita sociale. Il loro successo è talmente grande che diventano etichette,
che si applicano a qualsiasi cosa, spesso in maniera alquanto impropria. Tutti
li impiegano, anche se pochi – se adeguatamente interrogati – saprebbero spiegarne
l’esatto significato.
In campo strategico, la parola
d’ordine di questi anni difficili è “guerra asimmetrica”, definizione che viene
applicata con grande disinvoltura a qualsiasi forma di conflitto contemporaneo,
quasi che sia impossibile sentirsi à la
page senza farvi riferimento. I problemi nascono quando si tratta di
precisarne i contenuti e in Italia – si sa – non è che esista una conoscenza
strategica diffusa.
Sotto il profilo strettamente
dottrinale, le prime enunciazioni in materia, di provenienza statunitense,
risalgono al 1993 e trovano formalizzazione due anni dopo, nel 1995, ma è solo
nel 1999, con la pubblicazione in Cina del volume Guerra senza limiti, dei colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsui, che
il concetto comincia ad affermarsi con crescente successo in ambito
internazionale.
Da parte americana, la
riflessione sulla “guerra asimmetrica” era quella tipica di una superpotenza
che, nonostante il gigantismo e lo strapotere del proprio strumento militare,
si vedeva quasi sempre costretta a combattere, dopo la fine della “Guerra
fredda”, in scenari difficili e in cui il nemico, nonostante la sua apparente
debolezza, era in grado di infliggerle perdite molto pesanti, spesso insostenibili
a livello di opinione pubblica interna (si pensi alla vicenda di Mogadiscio del
3 ottobre 1993, così ben raffigurata nel libro Falco Nero di Mark Bowden e, con qualche concessione allo
spettacolo, nel film Black Hawk Down
di Ridley Scott). Dunque una riflessione in negativo, del tutto opposta a
quella dei colonnelli cinesi testé citati, i quali erano invece
comprensibilmente alla ricerca di come sciogliere il nodo di combattere una
guerra in condizioni di palese inferiorità tecnologica (in una parola: la
posizione della Cina di fronte agli Stati Uniti). Comune era però la
conclusione raggiunta: in una guerra condotta contro una forza superiore, la
chiave di volta di tutto sta nel come modificare l’equilibrio tra superiore e
inferiore a vantaggio di quest’ultimo.
Sottoposta a successivi
affinamenti, l’espressione “guerra asimmetrica” designa oggi una forma di
conflitto in cui il contendente più “debole” induce quello più “forte” ad una
reazione che trasforma i successi militari tattici di quest’ultimo in una
disfatta politica a livello strategico. Non a caso l’esperto militare francese
Jacques Baud ha intitolato il suo libro sul tema La guerre asymétrique ou la défaite du vainqueur. E, per rendere
più chiara la propria affermazione per cui la guerra asimmetrica corrisponda
alla “disfatta del vincitore”, ha addotto un esempio difficilmente confutabile:
come la guerra scatenata dagli USA contro il terrorismo internazionale sia
efficace essenzialmente contro i terroristi che vengono colpiti in prima persona,
ma tutt’altro che tale contro il fenomeno terroristico latamente inteso e
contro i fattori che servono a legittimarlo agli occhi di almeno una parte
dell’opinione pubblica mondiale.
Molti problemi derivano dal
fatto che il mondo occidentale, mentre è pienamente consapevole di essere
immerso in una realtà dinamica, dominata da continui cambiamenti, è restio,
certamente anche per ragioni di carattere culturale, ad attribuire un dinamismo
del genere pure alla guerra. L’auspicio diffuso sarebbe quello di non doverne più
sentire parlare, ma questo è purtroppo soltanto un wishful thinking, non un dato di fatto. A questa visione
eccessivamente ottimistica ha dato un potente contributo, prima dell’11
settembre 2001, la consapevolezza che l’Occidente era uscito vincitore dal
lungo contrasto con il blocco sovietico e dunque legittimato a guardare
all’intero pianeta come ad una realtà da plasmare a propria immagine e
somiglianza. Per sua sfortuna, tale desiderio è stato fatto proprio anche da
quanti, nel Terzo Mondo, avevano dovuto subire passivamente il conflitto
Est-Ovest e consideravano la sua fine come una straordinaria opportunità per
rimettere in moto quella che molti occidentali, per dirla con Francis Fukuyama,
consideravano invece la “fine della Storia”.
Nel mondo globalizzato, nel
mondo trasformato e trasfigurato dall’avvento delle tecnologie
dell’informazione, nel mondo in cui – come ha giustamente fatto notare Manuel
Castells – l’economia si è caratterizzata per il rapido passaggio da
un’organizzazione basata sullo “spazio dei luoghi” ad una incentrata sullo
“spazio dei flussi”, per quale ragione la guerra avrebbe dovuto rimanere un
fenomeno di tipo statico e tradizionale? Certo non perché ciò faceva comodo
alla visione quantitativa e tecnologica tipica delle classi dirigenti
politico-militari occidentali. È vero che, per un breve periodo, la vittoria
nella “Guerra fredda” ha pagato i suoi dividendi, determinando una certa
eclissi degli strumenti e soprattutto una marcata riduzione delle organizzazioni
militari occidentali, ma, a questo proposito, un certo numero di “anime belle”
ha sperato invano che la scomparsa dell’organo potesse determinare anche
l’annullamento della funzione. Non è stato così e l’attacco alle “Torri
gemelle” di New York ha rappresentato un brusco risveglio. Non – come
generalmente si crede – semplicemente perché ha dimostrato la potenza della
galassia terroristica e degli indicibili segreti che le stanno dietro, ma
soprattutto perché ha rivelato che la guerra del nuovo millennio è un fenomeno
nuovo, terribilmente articolato e complesso, al cui interno si inseriscono
logiche, principi e fattori altrettanto nuovi, un tempo del tutto estranei alla
dimensione polemologica.
Da qualunque punto di vista le
si guardi, le grandi capacità del terrorismo contemporaneo dimostrano che è
possibile, con mezzi limitati e talvolta limitatissimi, condurre una guerra
illimitata ed estremamente ambiziosa nei suoi obiettivi di fondo; una guerra
dove non contano più i semplici rapporti di forza, ma la capacità di colpire,
la flessibilità operativa, l’adattamento a situazioni sempre nuove e mutevoli,
una diversa visione della violenza e soprattutto della morte. Nelle società
occidentali, ad esempio, la guerra è diventata oggetto della massima ostilità
da parte della cultura dominante, al punto di essere oggetto di vere e proprie
campagne di demonizzazione. Non così, per contro, è avvenuto per la violenza,
che è assai meno ostracizzata sotto il profilo culturale e che è divenuta una
componente consustanziale delle nostre vite. Si tratta però di una violenza il
più delle volte solo rappresentata, asettica, una forma di esorcismo che quasi
mai risulta abbinata alla morte (quanto meno alla realtà e non alla
rappresentazione della morte) perché quest’ultima rappresenta oggi, nelle
società occidentali, il massimo della negatività e, al tempo stesso, il supremo
fattore di paura. Un “altro da sé” indicibile, da esorcizzare a qualsiasi
costo. Ma questa visione della morte – se ne parla ahinoi troppo poco! – rende incomprensibili
le visioni che vengono nutrite in altre società, dove la morte è considerata
una componente della vita, che esprime una continuità e non una rottura. La
morte come sacrificio consapevole, ad esempio, è assolutamente legittima nella
totalità delle società non occidentali, mentre da noi non lo è in quanto fa
venir meno non tanto il principio della sacralità dell’esistenza (che vale per
tutti) quanto quello – assai più discutibile – della mercificazione della
stessa.
Su uno sfondo del genere, i
conflitti simmetrici, vale a dire quelli che opponevano avversari che si
muovevano in base ad una logica analoga e ad una razionalità condivisa, sono un
retaggio del passato e hanno inevitabilmente lasciato il posto ai conflitti
asimmetrici, che mettono di fronte avversari le cui logiche di guerra risultano
profondamente diverse. Nel conflitto di tipo classico, la vittoria militare era
il presupposto indispensabile per il successo politico; nel conflitto
asimmetrico, è vero il contrario: lo scontro ha luogo a livello politico e
sociale, solo marginalmente a quello militare. Si può benissimo perdere a
quest’ultimo, se si appartiene al contendente più “debole”, e vincere agli
altri due. Il che è perfettamente comprensibile se si tiene conto del fatto che
è la logica della guerra ad essere del tutto cambiata, che la dimensione
bellica non è più privilegio delle organizzazioni statali e che tutto si svolge
a livelli dove si mischiano violenza organizzata, violenza della società e
violenza dei singoli individui. Dove la parcellizzazione e al tempo stesso la
personalizzazione del conflitto conferiscono dimensioni nuove, ancora tutte da
studiare, di cui sappiamo poco e capiamo meno.
Se proprio volessimo fare una
riflessione non polemologica, ma polemica, sulla natura della guerra
asimmetrica, dovremmo ammettere che essa ci obbliga a mutare il nostro
atteggiamento nei confronti del conflitto. Nell’epoca dei grandi Stati
nazionali, quest’ultimo si svolgeva a livello di organizzazioni statali, dove
si sviluppava e si esauriva. La pace, quando si riusciva a stabilirla, era
realmente definibile come tale. Oggi non è più così e – paradossalmente –
questo sviluppo inquietante ha luogo proprio nel momento in cui, nel nostro
mondo, le parole d’ordine della cultura dominante sono ispirate ad un pacifismo
totalmente privo di senso, se non in sé, certo nella realtà storica in cui si
manifesta. Come ha scritto un militare-intellettuale acuto e illuminato, che
ama parlar chiaro, il generale Fabio Mini, oggi «pochi al mondo sono
consapevoli di vivere da prede», non foss’altro perché gli è stato insegnato –
sulla base di un infondato ottimismo – qualcosa di profondamente diverso. Per
vivere il tempo della guerra asimmetrica, forse non ci serve trasformarci in
predatori, ma almeno acquisire questa fondamentale consapevolezza, e trarne le
debite conseguenze.
Piero Visani