Peter Pace, Edmund Giambastiani,
addirittura Marilyn Quagliotti: se si guarda al vertice militare delle Forze
Armate statunitensi, vale a dire al braccio armato della maggiore potenza
mondiale, i cognomi di origine italiana non mancano certo e occupano
posizioni di assoluto prestigio. Peter Pace è un marine, addirittura il primo
che sia riuscito a raggiungere l’ambita carica di Chairman of the Joint Chiefs of Staff, l’equivalente del nostro
Capo di Stato Maggiore della Difesa; Edmund Giambastiani è oggi al vertice
militare della NATO, dopo essere stato ai massimi livelli dell’U. S. Navy. Marilyn Quagliotti è un
generale a due stelle dell’Esercito con il prestigioso incarico di
vicedirettore della DISA (Defense
Information Systems Agency) e anche lei - come i suoi due più titolati
colleghi e forse in misura ancora maggiore, visto che si tratta di una donna -
smentisce quelli che potremmo definire i luoghi comuni sulla “ridotta
attitudine militare” degli italiani. Quello che si vuole dire, in sostanza, è
che non si arriva ai vertici dell’apparato militare statunitense se non si
hanno qualità di un certo tipo e, tra queste, la “ridotta attitudine militare”
non è certamente un requisito necessario, anzi.
Malgrado ciò, malgrado il fatto che sia possibilissimo per elementi di
chiara origine italiana farsi strada fino ai massimi gradi della più importante
organizzazione militare del mondo, lo stereotipo di “mandolinai e pizzaioli”,
di gente inaffidabile, che non sa battersi e tanto meno lo ama, ci perseguita
da tempo. A quando risale la genesi di questo dato storico negativo?
Tralasciando i repentini capovolgimenti di fronte che hanno fatto la storia di
casa Savoia, cioè della casata che ha svolto un ruolo determinante nella storia
d’Italia, e che tuttavia si riferiscono molto più alle sue vicende preunitarie
che a quelle successive, è possibile trovare parecchie tracce di inaffidabilità
e di scarsa propensione al combattimento nella storia italiana. Un esempio
classico di inaffidabilità politica è rappresentato dai “giri di valzer” che
caratterizzarono l’Italia giolittiana, con l’appartenenza formale alla Triplice
Alleanza con gli Imperi centrali e le scelte politiche successive, esattamente
antitetiche, che portarono l’Italia ad entrare nella Grande Guerra dalla parte
dell’Intesa. A sua volta, un esempio classico di scarsa propensione al
combattimento è rappresentato dalla rotta di Caporetto[i]
e dai fenomeni che si verificarono durante ed a seguito della medesima, con i
ben noti casi di “sciopero militare” mai troppo indagati da un lato e
strumentalmente utilizzati per coprire le macroscopiche deficienze
professionali degli alti comandi e del corpo ufficiali dall’altro.
Certo è che già al momento dell’ingresso
dell’Italia nel primo conflitto mondiale la tesi che gli italiani “non
sapessero” o “non amassero battersi” era una voce piuttosto diffusa e radicata,
se tutti gli interventisti, compresi quelli della Sinistra nazionale[ii],
reclamarono con forza la scelta della via delle armi proprio per smentire,
anche e soprattutto con il loro personale esempio, tale fama disonorevole. Il
loro sacrificio non fu vano, non solo perché portò alla vittoria del 1918, ma
anche perché consentì il lievitare nel nostro Paese di un fenomeno come quello
dell’arditismo, autentica smentita vivente, con la sua valentia delle armi e la sua estetica della morte,
dei troppi luoghi comuni che circolavano a carico delle qualità militari degli
italiani.
Sfortunatamente per i nostri destini di
Nazione, la contrapposizione tra “i soliti quattro gatti” capaci di fare
miracoli con l’ardimento e l’inventiva, e un’istituzione militare burocratica,
misoneista, professionalmente discutibile e tecnicamente inetta, corrosa dal
carrierismo e da clientelismi di tutti i generi, è una “sottile linea rossa”
che percorre la storia nazionale dal 1918 in avanti, intinta (ci si perdoni la
retorica, ma è necessaria) nel sangue dei suoi figli migliori: dalle intuizioni
di Giulio Dohuet sul bombardamento strategico a quelle di Teseo Tesei sulla
possibilità di usare mezzi navali modestissimi come moltiplicatore di forza di
un Paese povero e scarsamente industrializzato, dalle imprese grandi e piccole
degli eroi, noti e meno noti, della seconda guerra mondiale a fenomeni di “estetica
della guerra” come la carica del “Savoia Cavalleria” ad Isbuschenskij (estate
1942), è tutta una storia di occasioni perdute, di opportunità vanificate, di sacrifici
utili solo come prove testimoniali (e solo per chi fosse in grado di
apprezzarli), affondati in un sistema di colossale inefficienza, di ritardo
tecnologico, di compiaciuta autoesaltazione della propria ignoranza.
Il dramma vero, tuttavia, avviene dopo
ed è quell’8 settembre 1943 che, a tutti gli effetti, segna la “morte della
Patria”[iii],
che getta deliberatamente una “Nazione allo sbando”[iv],
che invia “tutti a casa” (almeno quelli che vorranno e riusciranno a tornarci)
non soltanto in senso stretto, ma in senso lato, inducendoli a confondere il
loro focolare, il loro piccolo Heimat,
con la loro casa unica e vera – l’Italia -, privandoli di un senso di comunità,
di Nazione, di destino che non fosse riservato alla loro dimensione
personalissima e privatissima, inducendo gli uni a vergognarsi del passato e
gli altri a vergognarsi del futuro, creando una dimensione di guerra civile
permanente che ancora non si è ricomposta – e difficilmente appare in grado di
ricomporsi – in una memoria condivisa, in cui non ci sia più da vergognarsi di
alcunché.
Fatto oggetto di una pesante rimozione storica,
ovviamente tutt’altro che disinteressata, in quanto intorno ad esso ruota tutta
la legittimità di ciò che è venuto dopo, l’8 settembre è scarsamente compreso
dagli italiani non solo nei suoi effetti sul piano interno, ma anche e
soprattutto su quello internazionale. Un esercito che cessa di battersi e si
sfascia in preda a varie forme di dissoluzione, dall’ammutinamento[v]
alla fuga di massa; una flotta che si consegna al nemico, sono tutti fenomeni
che non potevano certo rafforzare la stima del mondo nei confronti delle
capacità belliche degli italiani, che peraltro già durante il secondo conflitto
mondiale non erano certo rifulse per colpa di una classe militare di livello
professionale decisamente basso[vi]
e talvolta pure di dubbia lealtà.
Dopo la fine della seconda guerra
mondiale, si apre una nuova fase storica, ma l’8 settembre è lì e non si può
toglierlo facilmente di mezzo. E’ una presenza ingombrante, ma in realtà è
molto più ingombrante – per le forze politiche emerse vittoriose dagli sconvolgimenti
della guerra – la presenza di forze militari nazionali in quanto tali, perché
nessuno le vuole: non le vogliono i comunisti, che le considerano l’unico
ostacolo vero all’auspicato passaggio dell’Italia dal blocco occidentale a
quello sovietico, ma non le vogliono e si limitano a tollerarle anche i
moderati raccolti intorno alla Democrazia cristiana che, come cattolici,
nutrono una più o meno spiccata diffidenza (a seconda del loro livello di
riferimento agli orientamenti dottrinali delle origini) nei riguardi di tutto
ciò che è militare.
Su questo sfondo, l’Italia repubblicana
nasce afflitta da un’anomalia che è al tempo stesso una gravissima debolezza
strategica: dispone di forze militari, perché non esiste Paese al mondo degno
di questo nome che non ne disponga e perché la sua posizione al confine tra due
blocchi in conflitto non è tale da consentire alle sue classi dirigenti di
esserne priva, ma tali forze risultano totalmente delegittimate. Delegittimate
sul piano politico, perché nessuno dei grandi partiti di massa le ritiene degne
di rispetto, in quanto retaggio di un passato deprecabile (quello del
militarismo fascista[vii]),
e delegittimate sul piano culturale non solo perché la Costituzione
repubblicana “ripudia la guerra”, ma soprattutto perché nessuno, all’interno
del Paese, ragiona più in termini di sovranità nazionale (di cui le Forze
Armate costituiscono ovviamente la massima espressione), ma solo di appartenenza
a blocchi politici, ideologici ed economici contrapposti.
L’Italia del secondo dopoguerra è dunque
una Nazione priva di una cultura militare e di una cultura strategica, e,
conseguentemente, di una cultura nazionale. Non riesce dunque ad immaginarsi
come Nazione, il che può anche essere comprensibile, considerato l’esito avuto
da oltre due decenni di retorica ultranazionalista del fascismo, ma è
terribilmente problematico. Cerca nuove forme di vita e di identità, nella
forse comprensibile ma certo assurda speranza di definire nuovi percorsi, di
trovare nuove strade, di inventare nuovi modelli di identità nazionale.
Questo potente complesso di illusioni
trova facile alimento negli anni della “Guerra fredda”, quando il blocco
moderato riunito intorno alla Democrazia cristiana non ha e deve avere altra
preoccupazione se non quella di
consumare la sicurezza prodotta da altri, in primo luogo dagli americani. Il
contributo che le è richiesto è di tipo soprattutto formale: una struttura
militare per certi versi piuttosto grande, in grado di articolarsi su divisioni
e brigate da schierare al confine orientale, a difesa da un potenziale attacco
del Patto di Varsavia. Su quale poi sia la reale consistenza operativa di tale
struttura, non è il caso di soffermarsi troppo: chiunque abbia prestato il
servizio militare obbligatorio in quegli anni ricorderà la modesta efficienza
dei reparti e l’assai carente (usiamo un eufemismo) livello di tensione morale
che li pervadeva. Non mancavano le eccezioni in positivo, sia chiaro, ma si
perdevano nel mare magnum di
un’istituzione che dava palesemente prova di non credere in se stessa (e lo si
vedeva benissimo).
Questa situazione di privilegio, questa
possibilità di consumare a basso costo la sicurezza prodotta da altri, è venuta
progressivamente a mancare nel momento in cui, con la fine della “Guerra
fredda” e il collasso dell’URSS e del blocco sovietico, l’Italia, come molti
altri Paesi europei, si è trovata nella necessità di trasformarsi da
consumatrice a produttrice di sicurezza, di definire un interesse nazionale e
delle priorità strategiche atte a tutelarlo. Per noi, infatti, si è trattato di
un autentico trauma e non eravamo in alcun modo attrezzati ad affrontarlo.
Fino a quel momento, l’appartenenza ad un
blocco militare come la NATO ci aveva consentito di nascondere dietro un
profilo internazionale le nostre carenze puramente nazionali. Nella nuova
realtà, però, quel gioco delle parti non era più riproducibile. Occorreva
assumersi responsabilità in proprio e, per farlo, eravamo totalmente privi
degli strumenti adatti.
Lo strumento per eccellenza, cioè le Forze
Armate in quanto tali, era ancora il problema più facile da risolvere: era
sufficiente riconfigurarlo sulla base delle nuove realtà del mutato quadro
strategico internazionale. Malgrado ciò, c’è voluto un quindicennio prima che
il nostro corpo ufficiali si piegasse all’esigenza di dotare il Paese di uno
strumento militare professionale su base volontaria. C’era tutto da guadagnare,
in un passaggio del genere, in termini di legittimazione funzionale, visto che
sarebbe profondamente mutata in senso professionale la natura
dell’organizzazione militare, ma al contrario è stato fatto ogni sforzo per
evitare questo approdo, peraltro inevitabile, nella difesa di uno status quo
ispirata a considerazioni le più diverse, ma certo non professionali.
I veri problemi, tuttavia, erano altri e
consistevano essenzialmente nel dotare il Paese di una cultura strategica e di
una cultura militare. Ma – e qui sta il punto – le due forze politicamente
dominanti nel Paese, quella cattolica e quella comunista, erano impossibilitate
a farlo dalla loro natura sostanzialmente a-nazionale, dal loro riferirsi ad
ideologie internazionaliste profondamente diverse, ma certo prive di qualsiasi
ispirazione nazionale. Occorreva trovare una soluzione che consentisse
all’Italia di continuare a sviluppare una delle sue peculiarità storiche più
negative, vale a dire fingere di fare quello che facevano gli altri, quando in
realtà faceva qualcosa di profondamente diverso o, più probabilmente, non
faceva nulla. Non c’era alcuna possibilità di sviluppare un concetto di
interesse nazionale e tanto meno una cultura strategica nazionale, poiché la
cosa fuoriusciva completamente dall’orizzonte culturale e si sarebbe tentati di
dire anche antropologico di una classe dirigente che, per basse ragioni di
bottega, aveva commesso il grave errore di identificare fascismo e Nazione, con
la conseguenza che, invece di fare particolari danni al primo, ormai sconfitto,
erano state inferte ferite irreparabili alla seconda, con esiti catastrofici
per il futuro del Paese e della sua stessa percezione di sé. Ci sarebbe da
interrogarsi a lungo se ciò sia avvenuto a caso o per una scelta politica
precisa, ma non è questa la sede. Quel che conta davvero è che, nel momento in
cui i mutamenti della politica internazionale richiedevano all’Italia un
maggiore protagonismo in termini di produzione di sicurezza, il nostro Paese
non disponeva di una cultura che gli consentisse di farlo. Semmai, era da tempo
in preda ad una subcultura fatta di stereotipi negativi, di lassismo, di
menefreghismo palesemente intesa a far pascere gli italiani, per di più con
soddisfatto autocompiacimento, nei loro peggiori difetti, contenti di
autorappresentarsi (non necessariamente di essere) nel modo peggiore possibile.
E’ sufficiente pensare a certo cinema od a certa letteratura, in cui l’italiano
o è cialtrone o non è, nel senso che la cialtroneria viene deliberatamente
promossa come dato consustanziale, e ovviamente irrinunciabile, dell’identità nazionale[viii].
Poiché era inammissibile sottrarsi ad
obblighi che scaturivano dalla nostra posizione internazionale ed anche da
vincoli di alleanza e solidarietà con il mondo occidentale, la via che
all’inizio degli anni Ottanta venne scelta per giustificare una sempre maggiore
presenza italiana in campo internazionale, presenza affidata essenzialmente
alle sue forze militari, fu quella delle “missioni di pace” che, a cominciare
dal Libano (1982-1984), presero a diventare la stucchevole litania di accompagnamento
di qualsiasi impegno italiano all’estero.
Come è fin troppo noto, c’era e c’è ben
poco di realmente pacifico nelle missioni che hanno accompagnato il crescente
impegno militare italiano all’estero degli ultimi due decenni. Nella maggior parte
dei casi, erano interventi di stabilizzazione e – quel che è davvero importante
rilevare e che tutti tendevano (e tendono) invece a sottorappresentare -, se la
finalità di fondo era innegabilmente pacifica, non altrettanto lo erano (e non
avrebbero potuto esserlo) le modalità di intervento, che, per evidenti motivi
tecnici, erano invece di stampo militare tradizionale. Questo secondo aspetto è
sempre stato deliberatamente nascosto, persino in occasione di eventi come la
battaglia al check point “Pasta” a
Mogadiscio (2 luglio 1993), mentre avrebbe dovuto essere rappresentato, anzi
sovrarappresentato, anche per rispetto nei confronti dei nostri militari, dal
momento che i giusti obiettivi di stabilizzazione di fondo dovevano essere
talvolta ottenuti con il ricorso alle armi.
Anche se la nostra classe dirigente –
politica e non – tende a negarlo (con pochissime eccezioni di rilievo, ad
esempio il generale Carlo Jean), il vero problema di credibilità strategica
internazionale dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale e l’8 settembre 1943
consiste nel ricostituirsi una credibilità militare. Una grande opportunità in
questo senso sarebbe stata offerta dalla partecipazione di una brigata
terrestre alla Guerra del Golfo del 1990-91, dato che quel conflitto, che si
svolgeva all’interno di una precisa deliberazione dell’ONU, godeva di una
legittimazione politica assoluta, che nessuno avrebbe potuto scalfire. Per
contro, si è preferito optare ancora una volta sull’impegno aereo e su quello
navale, rinunciando a quello terrestre, molto più visibile e impegnativo. O,
peggio, si è preferito arrivare con una presenza terrestre in forze a cose
fatte, come nel caso del secondo conflitto iracheno, svoltosi peraltro in un
quadro di legittimità internazionale assai più fragile, ciò che comunque è
servito, in negativo, a consolidare a nostro carico una robusta fama di
profittatori. Così come lo sono serviti, sempre in negativo, i milioni di
dollari pagati ai rapitori in tentativi più o meno riusciti di recupero di
ostaggi, esperiti pure quando un blitz di forze speciali, condotto anche non da
soli ma in stretta collaborazione con gli americani, avrebbe enormemente
giovato alla nostra immagine internazionale e alla nostra stessa autostima[ix].
La motivazione che viene addotta
costantemente a scusante di comportamenti così timidi, rinunciatari o
addirittura sgradevoli, da parte della dirigenza politica e militare, è che il
Paese, nella sua intima essenza, non avrebbe la fibra per resistere ai drammi
ed alle sofferenze di un conflitto. Gli eventi di Mogadiscio e quelli ben più
gravi e recenti di Nassiriya (12 novembre 2003) hanno dimostrato invece
esattamente il contrario, vale a dire che l’opinione pubblica italiana non è
formata da “mammoni” o da vili, ma da cittadini consapevoli che qualunque tipo
di impegno internazionale impone i suoi costi, anche in termini di vite umane.
In tali occasioni, quindi, non ci sono state manifestazioni di piazza contro il
governo, ma un dolore sentito, commosso, composto e partecipe, che spesso ha
dato luogo a partecipazioni di folla assolutamente inattese a cerimonie,
ufficiali e non, di omaggio ai caduti.
Il problema della mancanza di una
cultura strategica non è dunque un problema di base, ma di vertice e, in
particolare, di quella che è l’autorappresentazione degli italiani da parte
della cultura dominante. Quello italiano è un popolo come gli altri, con pregi
e difetti. Quella che è assolutamente peculiare, al punto da costituire
un’autentica anomalia, è l’incultura strategica che viene diffusa dal vertice,
un vertice che a nessun livello – politico, militare o culturale – riesce ad
immaginare l’Italia come Nazione e i suoi cittadini come popolo, come comunità
nazionale.
Questa non è purtroppo una novità: se
guardiamo alla storia unitaria, i peggiori insuccessi militari italiani, da
Adua[x]
a Caporetto, dalle tante sconfitte della seconda guerra mondiale all’8
settembre, non sono frutto della codardia popolare, ma della gigantesca
insipienza di una classe dirigente, politica e non, che di dirigente aveva
soltanto il nome ed i relativi privilegi, non certamente la capacità di
acquisire competenze di vertice e tanto meno quella di assumersi le proprie
responsabilità. Spesso, nella storia nazionale, le masse si trovano in situazioni
difficili e disperate e, salvo pochissime eccezioni, fuggono. Ma chi le ha
messe in quelle condizioni, chi le ha gettate irresponsabilmente allo
sbaraglio? Chi ha commesso errori politici e tecnici macroscopici? Chi, al
momento buono, non si è fatto trovare con i propri soldati a condividere la
sconfitta, ma già pronto a ricostruirsi una verginità, a rifarsi una carriera,
a far dimenticare le proprie colpe?
Questa irresponsabilità di vertice si è
sposata, nel secondo dopoguerra, con una assoluta estraneità delle culture
dominanti – cattolica e comunista – alla dimensione nazionale. E quando, nel
corso degli anni Novanta, la Prima Repubblica è stata travolta dagli scandali e
si è profilata per un attimo la possibilità di un cambiamento, ci si è ben presto
resi conto che nessun cambiamento era possibile, dal momento che, se la
dimensione politica era in crisi (poi in larga misura rientrata) non lo era per
niente la dimensione metapolitica. Non a caso – e crediamo si tratti di
affermazione assolutamente incontestabile – il quadro di riferimento culturale
in cui si sono svolte le “missioni di pace” all’estero condotte dal governo
Berlusconi è il medesimo di quelli in cui si sono svolte le missioni
precedenti: lagnosa insistenza sull’ossimoro “soldati di pace”,
sovrarappresentazione della “via italiana al peacekeeping” (la tesi che vuole che gli italiani – in quanto “brava
gente” – siano molto più capaci di altri popoli ad entrare in relazione con le
popolazioni locali: un wishful thinking
che cerca di recuperare “in positivo” gli stereotipi che ci portiamo addosso in
ambito internazionale – simpatici, allegroni, maniaci del calcio e delle donne,
e soprattutto gente “con il cuore in mano” (che all’estero suona in realtà come
“inutilmente chiassosi ed emotivi”) – per farne un punto di forza, prescindendo
proprio da alcuni fattori fondamentali in certi contesti, come l’impiego della
forza stessa, la credibilità e l’effettivo controllo sul territorio, e
lasciando comprensibilmente cadere un velo di silenzio su pratiche non
propriamente esaltanti, come l’elargizione massiccia di grandi quantità di
denaro ad amici e soprattutto a nemici, potenziali e non, a fini di
stabilizzazione in nostro favore delle aree affidate al nostro controllo);
nessun tentativo di rilegittimazione – ovviamente graduale e progressiva - della
funzione militare come funzione “guerriera”.
Sotto quest’ultimo profilo, occorre
riconoscere che il governo Berlusconi, ammesso e non concesso che l’abbia
cercata, non ha trovato alcuna sponda, sotto il profilo metapolitico, in ambito
militare, e non solo perché, restringendo i bilanci della Difesa più ancora di
quanto avessero fatto i precedenti esecutivi di centrosinistra, se ne è
comprensibilmente alienato le simpatie, ma anche e soprattutto perché – e, tra
tutte le anomalie fin qui riscontrate, questa è forse la maggiore – i militari
italiani, a parte le solite ristrettissime eccezioni, sembrano i più contenti,
da parecchio tempo a questa parte di essere ossimori viventi, di “essere non
essendo”, di rinunciare consapevolmente alla loro funzione primaria (quella
guerriera) per andare alla ricerca di funzioni altre che restituiscano loro una
parvenza di legittimità in un contesto dove, in questo caso del tutto a
ragione, percepiscono di non averne alcuna[xi].
Non è un caso che, nel nostro Paese, la più instancabile promotrice della
figura risibile dei “soldati di pace” sia proprio l’istituzione militare, con
qualche correttivo parziale dovuto ad una residua forma di ritegno, ma con
un’insistenza degna di miglior causa. Se, infatti, una modestissima
legittimazione su questo versante è stata con il tempo (forse) trovata, il
problema (che, sia detto per inciso, sembra sfuggire del tutto ai militari) è
che si tratta di una legittimazione a-funzionale, nel senso che sono riusciti a
legittimarsi ad essere ciò che non dovrebbero essere. Non ci sembra un gran
risultato.
Se si guarda a tutto questo, non è
difficile approdare alla conclusione che siamo privi di una cultura strategica
per il semplice fatto che siamo impossibilitati ad averne una. La cultura che
in questo campo si è consolidata nel nostro Paese negli ultimi decenni è
talmente solida da essere diventata – con i meccanismi tipici dei totalitarismi
più raffinati, quelli “dolci” – un obbligo a cui nessuna persona di retto
sentire è in grado di sottrarsi, per un automatismo di pensiero tipico delle
“democrazie guidate”, che è quello per cui si è liberi di pensare ciò che ci
viene chiesto di pensare. Se poi per caso questa persona fosse dotata di tanto
coraggio o di tanta incoscienza, ci penserebbe il sistema di valori edificato
dalla cultura dominante a sottolinearne la “diversità” (quella che si combatte
a parole, quando non fa comodo evidenziarla per delegittimare l’avversario),
l’estraneità, la stramberia, l’appartenenza a quella che il mondo anglossassone
(che la sa lunga in materia, in quanto è l’inventore di tale sistema) è solito
definire una lunatic fringe, cioè una
frangia di emarginati che non è il caso di prendere troppo sul serio, in quanto
lunatici, simpatico eufemismo per non dire pazzi. E’ sufficiente partecipare ad
un dibattito pubblico, anche a livelli molto modesti, per constatare di
persona, prima ancora di essere contrastati dal moderatore (cosa che, se si
sostengono certe tesi, avviene quasi regolarmente, dovunque si sia invitati a
parlare), che il problema non è ovviamente quello di esprimere liberamente le
proprie idee (questo si può benissimo farlo, tanto nessuno ascolta), ma semmai
essere chiamati a farlo in un contesto culturale talmente condizionato da fare
apparire provenienti da un altro pianeta (ed essere trattati, per quanto
cortesemente, di conseguenza).
Con questo, il cerchio si chiude, ma
all’interno del cerchio non rimangono soltanto pochi malcapitati, ma un intero
Paese che oggi è costretto dalla sua cultura dominante a “pensare cooperativo”,
a fare continue attestazioni di becero pacifismo in una realtà che è sempre più
competitiva e che potrebbe presto diventare anche conflittuale. La logica
sequenziale non è uno dei punti di forza né della cultura né del carattere
nazionale, ma, se venisse usata almeno una volta, potrebbe forse indurre
qualche mente di funzionalità anche non superiore alla media a chiedersi quali
vantaggi abbia prodotto, per l’Italia come comunità nazionale, ispirare le
proprie logiche ad un “buonismo” di facciata (ché la realtà sottostante – come
sappiamo – è alquanto diversa e lascia spazio a fenomeni dove il “cattivismo”
malavitoso è, a tutti i livelli, assai diffuso) e ad una concezione irenica del
mondo: non granché, si potrebbe dire, vista la nostra caduta a picco in tutte
le più importanti classifiche internazionali, a favore di Paesi che molti
italiani continuano a considerare (anche se magari, in nome del “politicamente
corretto”, si astengono dal dirlo) un’accozzaglia di selvaggi.
Il fatto è che, per “pensare strategico”
e per avere una cultura conseguente, occorre immaginarsi come popolo, come
Nazione, come comunità di destino, non come un insieme malamente coeso di
individui e interessi permanentemente in conflitto tra loro. Occorre avere
un’etica della responsabilità e degli obiettivi condivisi. Occorre, in una
parola, “fare sistema”, come si dice oggi, con un neologismo che può piacere o
meno, ma che comunque rende bene l’idea. Sfortunatamente, poco o nulla di tutto
questo sta avvenendo e la cosa non è casuale, ma frutto di crescenti ritardi
culturali. Accade infatti che coloro che si ritengono all’avanguardia e che
continuano a ripetere – a trent’anni di distanza – slogan che andavano bene
(forse) a metà degli anni Settanta, sono ovviamente scivolati in retroguardia,
anche se non se ne sono accorti. Se continuano ad avere successo, è perché
detengono importanti posizioni di potere e perché i loro slogan di amore e
fratellanza universali sono quelli che si sposano meglio con quell’”etica
dell’irresponsabilità” che pare esercitare un’attrazione irresistibile su una
significativa componente dei nostri connazionali. I fautori dell’”impegno”
politico nei roaring Seventies sono
diventati oggi fautori di un irenismo e di un “buonismo” che si sposa nel
migliore dei modi con la paura di affrontare il mondo (e il mercato) che è
tipica di chi sa che da un confronto globale ha tutto da perdere e poco o nulla
da guadagnare, da chi non ha voglia di impegnarsi, di lottare, di sforzarsi, e
preferisce le piccole certezze di un’esistenza garantita (che avrò per me, mio
figlio – ormai è chiaro - non ne avrà alcuna: ecco uno splendido esempio di
senso della comunità e della continuità…), di un anonimato, di un rifugiarsi
nel cantuccio che sarebbe anche allettante, almeno per qualcuno, se potesse
durare in eterno, ma che invece è frutto di un capitale faticosamente
accumulato in passato ed ora in via di dissoluzione per eccesso di consumo
irresponsabile.
L’”assenza dalla Storia” – il sogno
neanche tanto proibito di una parte non trascurabile di italiani – è però un
sogno impossibile, perché non ci si può assentare dalla dinamica storica, anche
se molti provano seriamente a farlo. Su questo sfondo, la speranza che l’Italia
possa cominciare a “pensare strategico” è più di un sogno, è probabilmente
un’autentica utopia. Che però, come tutte le utopie, ha quanto meno il merito
di indicare obiettivi, di porre traguardi. E ci si può muovere nella sua direzione
per piccoli passi, senza traumi particolari, alla sola condizione di voler
sottrarsi al nullismo odierno, alle parole d’ordine sbagliate, alle false
verità ripetute stancamente come slogan di regimi totalitari. In caso
contrario, perdurerà e ovviamente si aggraverà una condizione di vuoto
culturale che è soprattutto una condizione di vuoto strategico. Quel che è
certo è che, in futuro, o acquisiremo una dimensione internazionale
competitiva, e tutti gli strumenti utili a farlo, tra cui una cultura
strategica e una militare, o cesseremo letteralmente di esistere e ritorneremo
ad essere quell’”espressione geografica” di cui parlava con disprezzo il
Metternich. Il vero problema è che questa è probabilmente una prospettiva assai
allettante per molti italiani.
Piero Visani
[i] Su
Caporetto, si leggano le illuminanti considerazioni di M. SILVESTRI, Caporetto. Una battaglia e un enigma,
Mondadori, Milano 1984, in particolare per quanto concerne il “filo rosso” che
lega l’”Italia caporetta” a quella dell’8 settembre 1943 e, per molti versi, a
quella di sempre.
[ii] In
proposito chi scrive, giovane laureando in Storia all’Università di Torino con
una tesi di storia militare, all’inizio degli anni Settanta ebbe il privilegio
di raccogliere in tal senso la testimonianza diretta di uno dei massimi storici
militari italiani, Piero Pieri, ormai molto anziano ma ancora lucidissimo nel
riaffermare la propria volontà, quale interventista di Sinistra, di “dimostrare
al mondo che gli italiani sapevano battersi”.
[iii] Sul tema, resta
fondamentale il saggio di E. GALLI DELLA LOGGIA, La morte della patria, Laterza, Roma-Bari 1996.
[iv] Sul
tema si legga l’interessantissimo saggio di E. AGA ROSSI, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943,
nuova edizione, Il Mulino, Bologna 1998.
[v] Sono
note, ad esempio, le polemiche sulla reale natura dei fatti di Cefalonia del
settembre 1943.
[vi] Si
leggano, sul tema, le impietose ma in larga misura condivisibili valutazioni di
G. ROCHAT, Le guerre italiane 1935-1943.
Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino 2005.
[vii] La
questione meriterebbe un’indagine a parte. Quello che si può dire in questa
sede è che, se il fascismo fosse stato realmente militarista, al di là di
qualche modesta esibizione di facciata, avrebbe fatto ogni sforzo per
ammodernare le forze armate e, soprattutto, per sottrarle al controllo di un
corpo ufficiali ottusamente conservatore, misoneista e, in non pochi casi,
professionalmente incompetente.
[viii]
Per fare un esempio molto chiaro, si pensi all’interpretazione di uno sport
molto popolare come il calcio in due film diversi, ma entrambi piuttosto noti
(il secondo addirittura premiato con l’Oscar per il migliore film straniero nel
1992): Fuga per la vittoria (Escape to Victory) di John Huston (1981) e Mediterraneo
di Gabriele Salvatores (1991). Nel primo, il calcio è uno strumento con il
quale dei combattenti, per quanto in misura largamente prevalente civili in
uniforme e non soldati di professione, cercano di ridicolizzare il nemico e al
tempo stesso di farne uno strumento per sottrarsi alla prigionia; dunque è un
mezzo, non un fine. Nel secondo, il calcio è la rivendicazione dell’identità
nazionale: nel mezzo di una bufera planetaria, la partitella (neppure una
partita regolare in uno stadio vero, come nel film precedente) in un campetto
di fortuna di un’isola greca è il modo per riconoscersi, per affermare (sic) un
sé, per trasmettere al mondo il messaggio: “gli altri facciano pure le guerre,
noi ci facciamo la partita” e – quel che è peggio – ci riconosciamo come tali
solo quando la facciamo. Qui dunque il calcio è un fine, non un mezzo; è il
punto di convergenza di un’identità fragile, è l’esteriorizzazione
dell’irresponsabilità più totale.
[ix] Su
questo sfondo, la vicenda di Fabrizio Quattrocchi e della sua nobilissima
rivendicazione a “far vedere come muore un italiano” si pone a livelli di
altezza tali da risultare gravemente stridente con il resto. Il che ne accresce
ovviamente la portata.
[x] Su
Adua e la mancanza di preparazione e di professionalità che già in quella
circostanza (ma c’erano illustri precedenti come Custoza e Lissa nel 1866)
venne palesata dalla classe militare italiana, si veda D. QUIRICO, Adua. La battaglia che cambiò la storia
d’Italia, Mondadori, Milano 2004.
[xi] Il
tema in questione è sostanzialmente tabù nel nostro Paese, per cui, essendo chi
scrive uno dei pochi che ha cercato di svilupparlo, per altro in
semiclandestinità, è purtroppo costretto a ricorrere all’autocitazione: cfr. P.
VISANI, Forze Armate, mass media ed
opinione pubblica nell’Italia attuale. Cause e problemi di un difficile
rapporto, Roma 1994.
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