giovedì 3 gennaio 2013

Torre d'avorio?

      Una mia amica psicologa mi rimprovera bonariamente di essere scomparso, da qualche mese a questa parte, malgrado alcuni progetti di lavoro che abbiamo in comune. Le motivo la mia scelta e lei - sempre molto bonariamente - mi fa notare che questo mio negarmi alla relazione con l'Altro potrebbe avere conseguenze non in linea con ciò che mi attenderei da questo rifugiarmi su una "torre d'avorio", che lei equipara a una fuga.
       Le rispondo che sì, ha ragione, sono un "guerriero in fuga" e non sono nemmeno preoccupato dall'idea di essere considerato un vile. Vengo da circa un biennio di profonda "immersione nel mondo", superiore ai miei standard abituali, e ora ho deciso di tornare alle vecchie abitudini.
       La mia amica sostiene che si tratti di una scelta che finirà per danneggiarmi, ma io le obietto che si tratta di una scelta selettiva: non mi sto negando alla relazione superficiale e sociale con l'Altro. Sono impegnato più che mai nel lavoro e nelle molteplici attività e relazioni che questo comporta. Incontro di continuo gente, viaggio, partecipo a riunioni. E non mi nego al alcuno. Ma non si tratta di vere relazioni. Sono contatti superficiali, professionali, consustanzialmente fuggevoli.
       Mi sto negando alla relazione profonda con l'Altro. Troppe vicende, nel corso di questo ultimo biennio, mi hanno fatto comprendere che il mio modo di intendere la relazione con l'Altro è diverso dalla media e che io intavolo relazioni solo con chi ritengo davvero interessante. Per me, una relazione con l'Altro è qualcosa di speciale, un dialogo profondo, un rapporto di affinità che può diventare complice e intimo. Come tale, questo rapporto non è equiparabile ad altri, non è omologabile e, quando ciò avviene, il vulnus che io ritengo mi venga inferto è di estrema gravità. Non accetto infatti alcun rapporto di omologazione. Quando mi accorgo, per un motivo o per l'altro, che chi si relaziona con me nel profondo di fatto mi considera interscambiabile con altri, per me tutto viene a cessare. Ogni rapporto si esaurisce.
       Chi vuole chiudere con me, in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo, non ha che da omologarmi al mio prossimo, ed è finita.
       Nel 2012, sono stato vittima, in due o tre casi e in altrettanti ambiti diversi, di tale processo di omologazione, e la cosa mi ha fatto molto male. Naturalmente, il tempo ha lenito quel dolore, ma, non avendo io vocazione al suicidio, ho pensato a come potermi difendere: se il mio aprirmi alla relazione con l'Altro non ha mai significato, in tutti questi casi, che l'Altro si aprisse davvero alla relazione con me, che allacciasse un dialogo vero con me, che cercasse di capirmi e non soltanto di giudicarmi (a me accade un po' troppo spesso di essere giudicato, non so bene perché), allora era preferibile che io mi rinchiudessi in me stesso, che mi negassi alla relazione. Se tutti i miei sforzi di dialogare, di farmi capire si risolvevano nel fatto di essere inteso e trattato come una persona qualunque, allora era il caso di chiudere. Non mi sono mai sentito un uomo qualunque, e non credo neppure di esserlo. Mi capita però spesso di essere trattato come tale, senza rispetto, senso della diversità, spirito di accettazione. A quel punto, quando mi accorgo di essere oggetto di un processo di omologazione, io, che tengo così tanto alla mia diversità personale, preferisco chiudere. Non pretendo di essere considerato uno special one. Mi limito a prendere atto che, per quella determinata persona non lo sono. La constatazione di fatto mi offende, e preferisco andarmene per la mia strada.
       Non c'è, in questo mio atteggiamento, nulla di supponente o di asimmetrico. Ho teso infatti a premettere, con forza, che qualunque persona con cui io mi relaziono nel profondo, rappresenta per me un soggetto speciale, al quale dedico la totalità delle mie attenzioni. Amo riscontrare reciprocità, in questo mio comportamento. Se non la trovo, se mi accorgo di essere "uno dei tanti", un soggetto A che può essere sostituito da un soggetto B alla prima occasione, me ne vado. Magari in un primo momento mi risento, poi mi passa e penso che, dopo tutto, non si è trattato altro che dell'ennesimo caso in cui non sono stato compreso. Non nutro recriminazioni, rimpianti o risentimenti. Non mi considero uno come gli altri. Evidentemente, per chi per un po' si è relazionato con me, ero tale. Quand'è così, non mi interessa più. Detesto essere oggetto di dinamiche equalizzanti.
     
                                                                           Piero Visani
      
                                                                     
     

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