L'unica volta in cui sono entrato liberamente negli Stati Uniti è stato il 26 giugno 1988, domenica, all'aeroporto JFK di New York. Ero stato invitato negli USA nel quadro dell'International Visitor Program del Dipartimento di Stato e all'aeroporto c'era un funzionario del medesimo, con tanto di cartellino dei cognomi ben esibito, ad attendere me e il mio compagno di viaggio.
Il JFK era intasato di masse di persone in attesa di poter entrare nel Paese, per cui ricordo bene che, dopo averci fatto imboccare la corsia VIP, superammo una quantità incredibile di gente in attesa suppongo da ore, la quale gratificò me e i miei due compagni di una serie di sguardi dove l'invidia (poca) si mescolava all'ostilità (tanta) e all'odio (ancora di più).
Sapevo che l'ingresso negli USA, neppure all'epoca, era cosa facile. Solo pochi anni prima, mia madre, in transito all'aeroporto di Houston di ritorno da un viaggio in America Latina, era stata bloccata dalle autorità di frontiera per problemi relativi al suo visto, e tenuta per un po' in camera di sicurezza, non vi dico in quale compagnia all'interno della medesima.
Quello con scorta del Dipartimento di Stato fu l'unico mio ingresso negli USA senza problemi, anzi con scappellamento da parte delle autorità di frontiera.
Poi ci fu un ingresso nell'agosto 2000, in auto da Montréal verso New York, in cui le guardie di frontiera si divertirono a notare quante schede di ingresso mia moglie riuscisse a sbagliare, senza compilarle giuste (credo però che non avesse scritto "sì" alla domanda: "Lei ha partecipato all'Olocausto del popolo ebraico?"), finché una guardia dall'aria paciosa e parecchio avanti con gli anni, si incaricò di compilargliela al posto suo, ridendo a crepapelle.
Tuttavia, basta guardare la data, era circa un anno prima dell'11 settembre. Dopo quella data epocale, tutto è cambiato e i miei non pochi ingressi negli USA furono tutti caratterizzati da problemini di varia natura. Uno - all'aeroporto Logan di Boston - mi vide alla prese con una guardia di frontiera che non sapeva assolutamente l'inglese, in quanto ispanico di recente immigrazione, e che si inalberò terribilmente quando io ebbi la pessima idea di favorirlo mescolando al mio inglese modesto alcune parole in lingua spagnola. Colpito nella sua (nuova) identità nazionale, divenne una belva e si placò solo quando vide, esaminando le varie pagine del passaporto, che ero stato almeno una volta negli States con visto VIP.
Tutto questo per dire che, anche prima di Donald Trump, entrare negli Stati Uniti è sempre stata una mezza scommessa, frutto di lunghe code in aeroporto e della possibilità di suscitare o meno simpatia nelle guardie di frontiera. Sono bianco e con tratti europei, e mia moglie e mio figlio pure, ma mi immagino cosa possa essere successo e succedere a soggetti con tratti somatici diversi, magari mediorientali.
L'ossessione securitaria, in una parola, non l'ha inventata Trump, per quanto possa averla più o meno legittimamente accentuata, ma chi conosce i controlli di frontiera USA, specie se ne ha dovuti affrontare parecchi, sa che cosa intendo dire.
Piero Visani