A volte, leggendo commenti di lettori a cose che scrivo, notando la sopravvalutazione di alcune e la sottovalutazione di altre, mi sento confermato nella mia teoria per cui l'unica possibilità che un autore ha, per quanto modesto egli sia, è quella di scrivere per se stesso, perché i rischi di fraintendimenti e incomprensioni sono all'ordine del giorno da parte di chi ha la benevolenza di leggermi, e di tutto questo chi scrive soffre. Soffre nel sentirsi incompreso, o frainteso, e soffre ancor più sentendo che la sua parola e il suo pensiero sono vani.
Queste considerazioni mi frullano in testa da qualche giorno e mi hanno indotto a ridurre drasticamente i miei interventi, come riflessione sull'inutilità dello scrivere. Naturalmente, tale inutilità non esiste, ma occorre fare i conti con le proprie personali sensazioni e fermarsi a riflettere.
Lo scrivere, del resto, è attività assolutamente inutile: non mi ha mai giovato come autore, non ha mai persuaso alcuno sul piano politico-culturale, non ha mai indotto una donna che mi piacesse a volermi bene, a prendermi anche solo in considerazione come uomo. Lo scrivere è una sorta di fredda vocazione al massacro.
Se resto attaccato alla pratica dello scrivere, è perché serve a me, perché mi fa bene, mi dà gioia, è probabilmente terapeutica. E' una pratica in fondo solipsistica e io, ormai, solo la solitudine cerco: la solitudine, la riflessione, il piacere e infine il dialogo con chi si dimostri anche solo vagamente affine alla mia visione del mondo. Non ho altre esigenze, ambizioni o speranze, se non quella di dialogare con qualcuno con cui cercare di capirsi, senza intavolare l'ennesimo e autoreferenziale dialogo tra sordi. Non nutro molte speranze in tal senso, ma la pervicacia è una delle mie poche doti.
Piero Visani