Kathryn Bigelow è - a mio parere - un'ottima regista. Lo dimostrano film come Point Break, Strange Days, Il mistero dell'acqua (la mia valutazione sul quale è forse influenzata dalla presenza, a fianco di Sean Penn, di una splendida e sensualissima Elisabeth Hurley...). E lo dimostra soprattutto un film di guerra intenso, crudo, durissimo, come The Hurt Locker.
Proprio perché quest'ultimo mi era piaciuto moltissimo, sono andato ieri sera con mio figlio a vedere Zero Dark Thirty, la celebrata pellicola sulla lunghissima caccia che ha portato all'individuazione del rifugio di Osama bin Laden (o di chi per esso...) e della sua uccisione da parte di una squadra di Navy Seal.
Potere immaginare la mia sorpresa di fronte a un film che non è un film, ma non è nemmeno un documentario o un docudrama; semmai la storia di un'ossessione, l'ossessione di un Paese (e forse della regista) per Osama bin Laden, cioè per colui che, nell'ultimo decennio, più gravemente ha (o avrebbe...) colpito gli Stati Uniti.
Zero Dark Thirty come film non esiste, nel senso che manca qualsiasi tensione drammatica o emotiva, al di là della palese ossessione personale della protagonista, un'agente della CIA che ha fatto della cattura di Osama lo scopo della sua (poverissima) vita.
Sotto il profilo dell'ossessione personale, il film ha un senso, ma non ne ha alcuno sotto nessun altro aspetto, poiché non spiega, descrive poco, dà tutto per scontato e - soprattutto - è privo di qualsiasi pathos.
Nella logica della caccia accanita condotta a Osama non c'è altra motivazione che la vendetta - e non sarò certo io, che di vendette mi nutro da sempre, a deplorarlo - ma tutta la faticosa e lenta narrazione si sviluppa in maniera molto manichea, senza che ci sia un benché minimo accenno alle "ragioni degli altri". Occorre solo colpire Osama, e farlo con qualsiasi mezzo, non esclusa la tortura o l'uccisione di donne e bambini.
Al di là delle deplorazioni moralistiche, che servono a poco in guerra e in politica, il film si connota per una straordinaria lentezza del dipanarsi della vicenda e per un senso di incredibile algore. Pochissimi paiono provare sentimenti, nella caccia ad Osama. Mi è venuto in mente, come naturale contrapposizione a quello che stavo vedendo, il film Hunger, di Steve McQueen, dedicato alla terribile vicenda di Bobby Sands e al suo deliberato sacrificio in favore della libertà irlandese dalla dominazione britannica. Un film scavato nella carne e nel sangue, durissimo, violento, ma pieno di vita, di pathos, di passione, di incredibile volontà di combattimento, di senso profondo di libertà e giustizia.
I soggetti che danno la caccia a Osama bin Laden sono invece delle donne e degli uomini senz'anima, che non paiono neppure comprendere bene che cosa stiano facendo, e perché. E alla fine, una volta soppresso il "reprobo" e consumata la vendetta, appaiono privi di un qualunque stimolo di vita, come se la loro vicenda esistenziale si fosse conclusa lì.
Probabilmente, l'intento originario del film era - à la Oliver Stone in Platoon - dimostrare una volta di più che "la prima vittima della guerra è l'innocenza" e, in effetti, in Zero Dark Thirty di innocenti non ce ne sono proprio. Ma l'intonazione di fondo resta manichea, l'ispirazione unica e ultima resta quella della vendetta, e la vicenda viene raccontata per salti logici che impediscono allo spettatore di capire, se non è ben addentro al tema.
A mio parere, per un'ottima regista come la Bigelow, una grande occasione perduta e un film che è forse un esercizio di patriottismo più o meno manicheo, ma che certo non è un esempio di grande cinema.
Piero Visani
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