L'amico Roberto Poggi, storico di qualità, ha scritto questo ampio saggio sulla schiavitù che mi è gradito pubblicare sul mio blog. Non sono forse completamente d'accordo su tutto, ma il confronto delle idee è ciò che auspico costantemente, senza censure, rimozioni o silenzi interessati.
Il prezzo richiesto nell’agosto del
1619 per i primi venti schiavi negri sbarcati da una nave da guerra olandese
sulle coste della Virginia fu giudicato senza dubbio vantaggioso dai piantatori
che non tardarono ad individuare nella schiavitù una soluzione definitiva al
problema della carenza di manodopera bracciantile che stava paralizzando le
loro attività. Prima di allora i piantatori virginiani avevano sperimentato
senza successo il ricorso a forme di servitù temporanea, imposte a criminali
condannati a lunghi periodi di lavoro forzato oppure ad emigranti disposti a
ripagare con anni di lavoro servile il prezzo della traversata oceanica. Il
clima insalubre delle piantagioni aveva decimato i lavoratori coatti provenienti
dalla vecchia Europa. Quei pochi che erano riusciti ad acclimatarsi si erano
mostrati tutt’altro che docili, poiché la grande disponibilità di terra e
l’opportunità di poter costruire finalmente la propria fortuna li spingevano a
rompere ogni vincolo contrattuale ed a ribellarsi ad ogni imposizione. La
soluzione adottata nelle colonie inglesi per sopperire alla mancanza di
manodopera fu tutt’altro che originale.
Intorno al 1510 la popolazione
indigena di Cuba era quasi completamente estinta, erano stati gli schiavi
acquistati sulle coste dell’Africa a prendere il posto degli indios sterminati dalle malattie
provenienti dall’Europa e dalle durissime condizioni di lavoro imposte dai
brutali colonizzatori spagnoli. La corona di Spagna aveva garantito grazie all’Asiento, cioè alla concessione, prima a
compagnie private e poi a governi stranieri, del monopolio della fornitura di
schiavi negri, il fabbisogno di braccianti per dissodare e mettere a frutto gli
sconfinati territori del Nuovo Mondo. Tale imponente traffico di esseri umani
si era rivelato talmente lucroso da spingere le potenze mercantili europee escluse
dall’Asiento a dedicarsi attivamente
al contrabbando. I negrieri riconosciuti dal re di Spagna ed i contrabbandieri
avevano popolato di schiavi il Nuovo Mondo assicurandosi enormi profitti ed
offrendo ai piantatori un costo molto contenuto della manodopera.
L’Africa, in cui la schiavitù era
praticata da tempo immemorabile, poteva fornire schiavi in abbondanza. Si
calcola che tra l’inizio del Cinquecento e la metà dell’Ottocento circa dieci
milioni di africani furono trasferiti in catene nel continente americano. I
capitribù dei villaggi affacciati sull’oceano Atlantico erano ansiosi di
scambiare i loro prigionieri di guerra oppure le vittime di razzie tra le popolazioni
dell’interno con rum ed altre merci di poco valore. I negrieri portoghesi,
olandesi, francesi o inglesi potevano così realizzare profitti favolosi a
fronte di investimenti relativamente modesti.
Lo sbarco dei primi venti schiavi
sulle coste della Virginia non fu nient’altro che il tentativo, pienamente
coronato dal successo, di creare un nuovo mercato alternativo a quello ormai
saturo rappresentato dai possedimenti spagnoli. Nell’arco di qualche decennio
la schiavitù si diffuse infatti in tutte le colonie inglesi del Nord America.
Nel New England la struttura economica, caratterizzata dalla presenza di
attività commerciali e manifatturiere e di una piccola proprietà terriera, mal
si adattava ad una massa di braccianti resistenti alla fatica, ma privi di
specifiche competenze, perciò la presenza di schiavi rimase molto limitata. Al
contrario nelle colonie meridionali della Virginia, del Maryland, della Georgia
e della Carolina gli schiavi importati dall’Africa divennero rapidamente la
forza lavoro delle grandi piantagioni, rendendo la schiavitù la peculiare
istituzione di quei territori, posta fondamento non solo di un sistema
economico, ma di un’intera civiltà.
Nonostante la diseguale distribuzione
degli schiavi sia le colonie meridionali, sia quelle settentrionali si
arricchirono grazie alla schiavitù. I piantatori meridionali sfruttarono il
lavoro degli schiavi, mentre i mercanti del New England, seguendo l’esempio di
quelli europei, lucrarono sulla tratta dei negri, inserita nel contesto di un
sistema commerciale triangolare. Le navi del puritano New England facevano
rotta sui Caraibi per acquistare melassa e canna da zucchero da trasportare nei
loro porti di partenza dove venivano trasformate in rum. Cariche di liquore le
stesse navi volgevano poi la prua verso l’Africa, dove ogni barile veniva
scambiato con uno schiavo. Il Middle
Passage, cioè la traversata atlantica dalle coste occidentali dell’Africa
sino ai porti delle colonie meridionali come quello di Charleston, poteva
durare a uno a sei mesi a seconda delle condizioni atmosferiche. All’aumentare
del periodo di navigazione cresceva la probabilità che il carico di merce umana
si riducesse anche sensibilmente, a causa della scarsità delle razioni
alimentari e del diffondersi a bordo di malattie come la dissenteria, lo
scorbuto ed il vaiolo. Tra gli schiavi incatenati a coppie e costretti per
giorni ad una immobilità pressoché totale non mancavano inoltre i casi di suicidio.
Per massimizzare i loro profitti i negrieri non dovevano fare altro che sovraffollare
le loro stive, sfruttare i venti più favorevoli e distribuire quel tanto di
cibo e di acqua sufficienti a tenere in vita i loro prigionieri. Dopo aver
venduto il loro carico umano ai mercanti di schiavi di Charleston, di Savannah
o di Annapolis, le navi negriere tornavano a fare rotta verso i Caraibi per
caricare altra melassa ed altra canna da zucchero da cui ricavare rum da
offrire ai capitribù del golfo di Guinea.
L’orrendo commercio di esseri umani
del Middle Passage rimaneva così
invisibile alle comunità puritane del Massachusetts o del Rhode Island che
prosperavano sulla tratta degli schiavi senza vederli mai sbarcare nei loro
porti. L’opinione pubblica del New England, composta da artigiani, piccoli
proprietari terrieri e marinai, era così tenacemente avversa alla concorrenza
rappresentata dal lavoro servile che già alla fine del Settecento impose in
quei territori l’abolizione della schiavitù. Tale misura non significò tuttavia
né una affermazione della parità di diritti tra bianchi e neri, né tanto meno
l’abolizione della tratta atlantica.
Il continuo afflusso di schiavi nelle
colonie meridionali finì per allarmare la classe dirigente, preoccupata dai
rischi per l’ordine pubblico generati dalla crescita della popolazione africana
e soprattutto dal crollo dei prezzi dei negri, su cui i piantatori avevano
investito una parte rilevante della loro ricchezza. Prima dell’indipendenza
dalla corona inglese i governi sudisti, a cominciare da quello della Virginia,
tentarono di vietare la tratta atlantica, ma si scontrarono con la netta
opposizione di Londra, che non era disposta a penalizzare gli interessi dei
propri mercanti. Sciolto ogni vincolo con la madrepatria, la Virginia si
affrettò a vietare la tratta, ma altri stati come la Georgia ed il Sud Carolina
non poterono fare altrettanto. Durante la guerra di indipendenza quei territori
erano stati occupati dalle truppe inglesi che avevano provveduto a liberare gli
schiavi per punire i piantatori ribelli. La necessità in alcuni stati di
riprendere la più presto l’attività produttiva con l’importazione di nuovi
schiavi e la volontà dei negrieri del New England di continuare a fare affari
finirono per imporsi nel 1787 in seno alla Convezione costituente, che rifiutò
di abolire la tratta nell’Unione.
Anche il parlamento del territorio
della Louisiana, acquistata dalla Francia nel 1803, si affrettò a consentire
l’importazione di schiavi africani per assecondare la forte richiesta del
mercato. Nei primi anni dell’Ottocento entrarono nel territorio degli Stati
Uniti tra i 75.000 ed i 100.000 nuovi schiavi. Soltanto una piccola parte di
essi fu destinata a sostituire la massa di braccianti dispersa durante la
guerra di indipendenza, la maggior parte fu invece impiegata in un poderoso
aumento della produttività delle piantagioni di cotone, reso possibile da una
innovazione tecnologica. Nel 1797, un giovane studente, Elia Whitney, inventò
una sgranatrice meccanica per il cotone che assunse ben presto la denominazione
di cotton gin, abbreviazione di cotton engin. Prima di allora il cotone
era sgranato a mano, un uomo ben addestrato poteva produrne circa mezzo chilo
in un giorno. La prodigiosa invenzione di Whitney innalzò tale quantitativo
sino a mezzo quintale.
In tutti gli stati meridionali
dell’Unione furono abbandonate le vecchie coltivazioni, ovunque fu seminato
cotone, che richiedeva una grande massa di schiavi per essere coltivato e
sgranato. La produzione di cotone grezzo passò da meno di 4 milioni di chili
nel 1796 ad oltre 46 milioni di chili nel 1816. Benché il prezzo del cotone
grezzo fosse destinato a calare con l’incremento della produttività, per i
piantatori meridionali si inaugurò un’era di grande prosperità. Il continuo
aumento dell’estensione dei terreni coltivati a cotone e del numero di schiavi
impiegati garantivano una prospettiva di rapido arricchimento a chiunque
disponesse di capitali da investire.
Mentre la cotton gin trasformava profondamente il volto economico e
produttivo degli stati meridionali, sull’altra sponda dell’oceano atlantico il governo
britannico andava mutando il suo tradizionale atteggiamento benevolo nei
confronti del commercio di schiavi. Dopo la bocciatura di diverse proposte di
legge, presentate a partire dal 1792, finalmente il parlamento di Londra
approvò nel 1807 lo Slave Trade Act,
che poneva fuori legge il commercio degli schiavi in tutti i territori della corona
inglese.
Gli Stati Uniti non poterono ignorare la
netta presa di posizione inglese. Sotto l’impulso del presidente Jefferson,
fiero oppositore, come il suo predecessore Washington, della schiavitù, benché
proprietario di schiavi, il Congresso mise fuori legge la tratta atlantica a
partire dal primo gennaio del 1808, lasciando però liberi gli stati meridionali
dell’Unione di preservare la peculiare istituzione nelle loro legislazioni. Gli
afroamericani liberi presero a celebrare tale data in luogo del 4 luglio.
L’attività di contrasto al contrabbando, inizialmente fiacca e discontinua, si
fece più incisiva dopo il 1820, quando la tratta atlantica degli schiavi fu assimilata
alla pirateria. Il crescente impegno delle autorità federali non riuscì
comunque a debellare il fenomeno. Ancora nell’aprile del 1861, quando le prime
cannonate della guerra civile erano già state sparate, una nave negriera di
Boston fu sequestrata con a bordo un carico di oltre 900 schiavi.
Benché persistente, il contrabbando
non riuscì mai a soddisfare la crescente domanda di braccianti da parte dei
piantatori meridionali. L’effetto più immediato della cessazione
dell’importazione di schiavi fu quindi l’impennata dei prezzi che continuarono
a lievitare sino alla vigilia dell’abolizione della schiavitù nel 1863. Ad
alimentare il mercato interno di schiavi fu soprattutto la crescita vigorosa
della popolazione nera, resa possibile dalle condizioni di vita mediamente
buone garantite dai piantatori ai loro braccianti. Nel 1860 sui circa
31.500.000 abitanti dell’Unione poco meno di 4.500.000 erano neri, di cui
4.000.000 schiavi impiegati nelle piantagioni del Sud, dove costituivano il 40%
dell’intera popolazione.
La proprietà degli schiavi era
concentrata in poche mani. Degli otto milioni di bianchi residenti negli stati
meridionali oltre sei milioni non possedevano schiavi. La maggior parte dei
proprietari, circa 1.400.000, disponeva di una forza lavoro che oscillava tra
uno e dieci schiavi, soltanto una ristretta élite
di 200.000 piantatori possedeva più di venti schiavi.
Pochi o tanti che fossero, gli schiavi
rappresentavano per i loro proprietari un investimento da tutelare, esattamente
come gli altri animali da lavoro di cui disponevano.
“La maggior parte degli schiavi
conosce la loro età tanto poco quanto i cavalli…” . Nel 1845 Frederick
Douglass, lo schiavo fuggitivo destinato a diventare il primo leader abolizionista afroamericano,
affidò a questa denuncia della sistematica disumanizzazione dei negri l’incipit della sua autobiografia. Per
quanto moralmente deprecabile, l’assimilazione ad animali da lavoro garantiva
agli schiavi, secondo il filosofo francese Felicité de Lamennais, autore nel
1840 di un saggio sulla schiavitù moderna, condizioni materiali invidiabili
rispetto a quelle dei proletari in Europa agli albori della rivoluzione
industriale. In quanto preziosi strumenti di lavoro acquistati a caro prezzo,
gli schiavi, a differenza dei proletari, erano nutriti e protetti con grande
cura dai loro proprietari. L’interesse dei piantatori a preservare ed
accrescere il valore della loro proprietà costituiva per gli schiavi una
protezione contro la fame, le malattie e la brutalità. Tale barriera però non
aveva sempre la stessa efficacia, oscillava come il prezzo dei negri al mercato
e poteva anche affievolirsi sino quasi a sparire per soggetti resi senza valore
dall’età o dalle infermità. Douglass sfruttò ogni pagina del suo racconto per
enfatizzare l’abietta venalità dei proprietari di schiavi che potevano
prendersi cura come una figlia di una negra incinta di due gemelli, perciò
portatrice nel suo ventre di un valore doppio rispetto alle aspettative, oppure
condannare all’isolamento una vecchia mamie
ormai cieca come la nonna dello stesso Douglass.
Una schiava capace di mettere al mondo
molti figli valeva sul mercato da un quarto ad un sesto in più di una sterile.
In alcune piantagioni la promiscuità dei rapporti non solo era tollerata ma
addirittura incoraggiata allo scopo di accrescere il numero di capi del gregge
umano dei proprietari. I sorveglianti delle piantagioni più grandi e talvolta i
proprietari di quelle più piccole non si esimevano dal fornire il loro
personale contributo all’incremento della natalità. Douglass fu separato dalla
madre quando aveva appena un anno di vita e non conobbe mai il padre, benché
gli insistenti pettegolezzi della piantagione lo identificassero nel suo
padrone. La legge tutelava i bianchi, stabilendo che i figli nati da relazioni
con schiave ereditassero la condizione della madre, senza poter rivendicare
alcun diritto nei confronti del padre.
Il destino dei figli illegittimi dei
padroni era talvolta drammatico. In Alabama nel 1853 una negra colpevole di
aver ucciso suo figlio fu impiccata. Difronte al giudice tentò di giustificarsi
dichiarando di aver voluto sottrarre il suo bimbo dalle feroci angherie della
moglie del suo padrone che odiava quella creatura, poiché la considerava la
prova vivente dell’adulterio del marito. Per preservare la loro quiete
familiare ed evitare simili tragedie i padroni di solito provvedevano quanto
prima a vendere le schiave madri dei loro figli.
Le razioni alimentari concesse ai
braccianti erano spesso alquanto generose per coloro che avevano la fortuna di
lavorare in una piantagione prospera e ben amministrata. In Virginia i negri
ricevevano in media ogni settimana un chilo e mezzo di carne e quindici chili
di farina di mais che in larga parte non erano destinati al consumo, ma alla
vendita nei mercati cittadini per ricavare il denaro contante con cui
acquistare i beni necessari ad integrare la dieta. In alcune grandi piantagioni
del Mississippi venivano distribuiti due chili di bacon a settimana ad ogni
bracciante, oltre a nove litri di granoturco. In mancanza di verdure da
distribuire la quantità di bacon poteva essere aumentata sino a quattro chili e
mezzo pro capite a settimana. Nella
piantagione del senatore Butler nella Carolina del Sud, il più modesto
quantitativo di bacon distribuito era integrato ogni settimana dalla fornitura
di pane, verdure e latte a volontà.
In occasione delle festività natalizie
era consuetudine in tutte le piantagioni donare ai negri melassa, caffè e
tabacco in quantità variabili a seconda dei meriti individuali e della
generosità dei padroni. La monotonia dell’alimentazione degli schiavi,
incentrata su bacon e farina di mais, era inoltre attenuata dalla frequente
concessione di piccoli campi ad uso familiare in cui coltivare verdure ed
allevare pollame, conigli e maiali. Talvolta i piantatori erano disposti ad
acquistare dai propri schiavi uova, pollame e verdure, fornendo loro una
preziosa fonte di reddito aggiuntiva. Anche la caccia e la pesca erano di
solite consentite ai negri sulle terre dei loro padroni. Nonostante le
occasionali integrazioni, la dieta degli schiavi rischiava spesso di essere
carente di sali minerali, proteine, piuttosto scarse nel bacon, e soprattutto
di vitamine, preziose per prevenire l’insorgere di gravi patologie come il
beriberi, lo scorbuto e la pellagra. Le parti più grasse del maiale ed il mais
garantivano un elevato apporto calorico, ma non aiutavano lo schiavo né a
resistere alla fatica di uno sforzo prolungato, né a proteggersi dalle
malattie.
Se i grandi proprietari ostentavano
una certa magnanima generosità verso gli schiavi, i piccoli erano invece
propensi a lesinare anche sui generi di prima necessità pur di non erodere i
loro profitti. Frederick Douglass, che trascorse l’infanzia nel Maryland in una
piantagione di una trentina di schiavi, dovette convivere con la fame. L’unico alimento
distribuito ai bambini era il mush,
un pastone a base di farina di mais, versato in una sorta di trogolo da cui
tutti, muniti soltanto delle proprie mani o di qualche conchiglia, dovevano
servirsi. Chi sgomitando riusciva a farsi spazio attorno al trogolo poteva
sperare, ingozzandosi voracemente, di saziarsi, gli altri dovevano rassegnarsi
a patire la fame.
Peggiore della fame era soltanto il
freddo. I bambini non ricevevano in dotazione nient’altro che un paio di
camicie di tela grossolana lunghe sino alle ginocchia. Per proteggersi dal
freddo il piccolo Douglass era solito indossare sopra la sua lacera camicia un
sacco di juta che era riuscito a rubare.
Giacche, pantaloni, calze e scarpe
erano riservati agli schiavi addetti al lavoro dei campi. Erano indumenti
rozzi, ma funzionali, prodotti per lo più da alcune fabbriche specializzate del
Rhode Island. La spesa per le scarpe ed il vestiario degli schiavi costituiva
una voce piuttosto rilevante nel bilancio delle piantagioni ben amministrate.
Il decoro dell’abbigliamento degli schiavi era spesso l’indice più affidabile
della prosperità di un piantatore. A schiavi scalzi e stracciati
corrispondevano per contro padroni sull’orlo della rovina.
Anche la qualità degli alloggi degli
schiavi era molto variabile da una piantagione all’altra. Si potevano trovare
casette bifamiliari, simili a cottage,
imbiancate all’esterno ed intonacate all’interno, con soffitti in legno, due
stanze da letto arredate con mobilio semplice ma funzionale, una cucina
spaziosa munita di un camino di mattoni, un solaio, un gabinetto ed un
orticello di pertinenza; oppure miserabili ed anguste capanne di tronchi, senza
finestre, prive di ogni arredo, con un camino fatto di tavole impastate di
fango attorno a cui gli schiavi erano costretti a dormire per terra avvolti in
una rozza coperta. Talvolta le baracche degli schiavi era così piccole e basse
da sembrare polveriere o ghiacciaie, piuttosto che capanne destinate ad
ospitare esseri umani.
L’orario di lavoro era quasi sempre lo
stesso in tutte le piantagioni: dall’alba al tramonto, sei giorni su sette. Il
riposo domenicale, pur essendo previsto dalle leggi di alcuni stati, come la
Louisiana, non era scrupolosamente rispettato. In Georgia e nella Carolina
Meridionale era largamente impiegato il lavoro a cottimo. Per ogni bracciante
erano fissati degli obiettivi produttivi, ad esempio arare in un giorno un acro
di terreno con una coppia di buoi oppure mondare mezzo acro di risaia, raggiunti
i quali lo schiavo era libero di tornare ai propri alloggiamenti a riposarsi.
Questo sistema consentiva ai più vigorosi e capaci di concludere la loro
giornata lavorativa all’ora di pranzo o nel primo pomeriggio. I piantatori
avevano interesse a fissare degli obiettivi ragionevoli per evitare un precoce
deterioramento della propria forza lavoro e per contenere il rischio di fughe e
ribellioni. Se invece nella loro mente l’avidità prendeva il sopravvento sul
buon senso, il lavoro per gli schiavi si trasformava in un supplizio atroce, da
cui nessuna legge poteva proteggerli.
Era consuetudine in tutto il Sud
concedere agli schiavi una settimana di vacanza ogni anno, tra Natale e Capodanno.
Chi viveva lontano dai propri familiari impiegati in altre piantagioni poteva
raggiungerli. Chi restava sulla terra del suo padrone era libero, dopo aver
accudito gli animali, di trascorrere il tempo come meglio credesse. Alcuni si
dedicavano alla produzione di piccoli oggetti di artigianato da vendere al
mercato, altri, la maggior parte, si svagavano cacciando, pescando, suonando,
danzando e soprattutto bevendo il whiskey ricevuto come strenna natalizia.
Secondo Douglass erano gli stessi padroni ad incoraggiare l’ozio, gli eccessi
ed il consumo di whiskey, allo scopo di confondere nella mente degli schiavi
libertà e vizio. Dopo una settimana di danze e di bagordi alcolici, gli schiavi
accoglievano la fine delle vacanze con la stessa grata soddisfazione con cui le
avevano iniziate.
In alcune piantagioni la giornata di
lavoro incominciava con il rituale dell’adunata, annunciata dal suono di un
corno da caccia. Taluni sorveglianti erano soliti frustare o bastonare i
ritardatari, senza mostrare indulgenza né per l’età, né per il sesso dei
malcapitati. Fino all’ora di pranzo gli schiavi organizzati in squadre non
avevano diritto a pause. La fatica e la monotonia del lavoro erano alleviate
dai canti, tollerati dai sorveglianti che spesso non ne afferravano il
significato più profondo. Secondo Douglass più gli schiavi erano infelici e
maltrattati, più ricorrevano al canto come balsamo per lenire angosce e
frustrazioni. Intrecciando su di una base ritmica rassegnazione e sofferenza,
sogni di libertà ed invocazioni alla giustizia divina, i canti costituivano
l’unica forma di espressione relativamente libera di cui gli schiavi
disponevano. Una voce solista intonava semplici parole che esprimevano
nostalgia per la propria donna, per il proprio focolare, oppure descrivevano la
struggente bellezza dei colori del cielo e tutti gli altri ripetevano in coro.
L’imposizione del cristianesimo agli schiavi trasformò progressivamente i canti
in preghiere in cui l’aspirazione alla libertà ed alla giustizia assumevano una
dimensione spirituale ed ultraterrena, che non veniva percepita né dai padroni né
dai sorveglianti come una minaccia al loro potere.
Agli estenuanti orari di lavoro
imposti non corrispondeva una elevata produttività. Anche in assenza di
affidabili dati statistici, sono molteplici gli indizi sulla negligenza e
l’incuria degli schiavi. Era convinzione comune tra i piantatori che i negri
lavorassero poco e male, senza quell’intelligente partecipazione che un suolo
ormai in gran parte depauperato avrebbe richiesto. Soltanto la costosa presenza
di sorveglianti severi ed onnipresenti poteva garantire risultati produttivi
apprezzabili. Nel 1855 un piantatore del Sud Carolina scriveva esasperato:
“L’usura degli attrezzi della piantagione costituisce un vero tormento per
tutti i piantatori che non possono permettersi il lusso di avere a portata di
mano un buon meccanico tutti i gironi dell’anno. Gli aratri vanno in pezzi, le
zappe finiscono chissà dove, i finimenti delle bestie da tiro sono in
condizioni pietose, cosicché ogni momento si deve correre dal fabbro, dal
carpentiere, dal conciatore e dal sellaio.”
Per contenere i danni alcuni
piantatori dotavano gli schiavi di attrezzi ben poco maneggevoli e quindi per
nulla efficienti, ma durevoli, come la “zappa da negro”, molto diffusa in
Virginia, che pesava tre volte di più rispetto a quella impiegata al Nord dagli
agricoltori liberi. In alternativa alla distribuzione di attrezzi pesantissimi,
altri proprietari si rassegnavano ad acquistare attrezzi scadenti, destinati a
resistere per breve tempo nelle mani degli schiavi. Pesantissimi o leggerissimi
che fossero, gli attrezzi erano comunque inadeguati a favorire l’incremento
della produttività di lavoratori come gli schiavi, comprensibilmente privi di
ogni motivazione.
L’incuria degli schiavi non si
limitava alle zappe, ma si estendeva anche agli aratri, agli erpici, ai
coltivatori, alle seminatrici ed alle mietitrici, inducendo i piantatori a
ridurre al minimo indispensabile l’investimento nelle attrezzature. Nel 1857
gli aratri di buona qualità prodotti per il mercato settentrionale costavano
dai 15 ai 20 dollari, spendendo tra i 5 ed i 10 dollari se ne potevano
acquistare di mediocri. Il valore stimato della maggior parte degli aratri
impiegati al Sud oscillava tra i 3 ed i 5 dollari. Un piantatore del
Mississippi riteneva, ad esempio, che i suoi 30 aratri non valessero più di 75
dollari.
Gli stessi piantatori che si
accontentavano di aratri tanto leggeri da scalfire appena il terreno e così
obsoleti da non differire a metà ottocento da quelli in uso un secolo prima,
non erano disposti a lesinare sull’acquisto di una sgranatrice. Nella
piantagione Tooke, in Georgia, dei 195 dollari investiti in attrezzature, 110
erano stati spesi per una cotton gin.
Sapendo di non poter contare su di una
manodopera attenta, motivata e qualificata i proprietari meridionali erano
orientati ad incrementare la produzione di cotone estendendo le aree coltivate,
anziché ricorrendo all’ausilio della tecnologia e dei concimi. Su tale
decisione pesava, più della carenza, certamente rilevante, di capitali,
l’incuria degli schiavi. Persino l’impiego su vasta scala dei fertilizzanti sui
campi di cotone avrebbe richiesto per sortire significativi effetti positivi
un’attenzione meticolosa da parte dei braccianti, un’attenzione che non era
logico attendersi dagli schiavi.
Dai registri di molte piantagioni
risulta che nei due terzi dei casi le punizioni inflitte agli schiavi erano
dovute alla negligenza ed all’inefficienza dimostrate durante il lavoro. La
maggior parte dei piantatori sosteneva che la frusta fosse indispensabile, ma
tendevano ad usarla con parsimonia e cautela per non danneggiare i propri
investimenti. L’architetto Frederick Law
Olmstead, autore a metà Ottocento di un ampio resoconto dei suoi viaggi nel sud
schiavista, intitolato The cotton kingdom,
raccontò di aver assistito alla somministrazione di una sessantina di frustate
ad una giovane schiava giudicata dal sorvegliante troppo indolente. Benché
inorridito da quella violenza, Olmstead dovette constatare che dopo un simile
trattamento la schiena della schiava non sanguinava neppure. Probabilmente lo
scopo di quelle frustate era umiliare più che ferire.
Non tutte le punizioni erano così
incruente. Douglass ancora fanciullo assistette impotente alla feroce punizione
di sua zia, colpevole di essersi allontanata dalla piantagione senza permesso.
Le urla strazianti della zia e l’immagine delle gocce di sangue che schizzavano
dopo ogni frustata sul pavimento della cucina del padrone rimasero per sempre
impresse nella sua mente. Una cugina appena sedicenne della moglie di Douglass
fu uccisa a bastonate dalla sua padrona che l’aveva sorpresa addormentata
accanto alla culla che le era stato ordinato di vegliare.
In tutti gli stati del sud schiavista
esistevano leggi che comminavano pene severe a coloro che uccidessero, ferissero
o torturassero uno schiavo, ma di fatto rimanevano lettera morta, dal momento
che era fatto divieto ai negri di testimoniare contro i bianchi. Nonostante
tale divieto, vi furono sporadici casi di lievi condanne di bianchi assassini o
seviziatori di schiavi. La riprovazione
sociale intimoriva i violenti ben più del rigore della legge. L’opinione
pubblica del Sud non tollerava la crudeltà verso gli schiavi, i proprietari che
si guadagnassero la poco invidiabile fama di “ammazza-negri” rischiavano di
perdere del tutto il rispetto delle loro comunità e persino di subire gravi
ritorsioni. Nel 1834 a New Orléans si era sparsa la voce che una ricca
proprietaria seviziasse i suoi schiavi. Una sera una folla inferocita fece
irruzione nella dimora della signora, trovando alcuni schiavi incatenati con
evidenti tracce di sevizie. Quella prova sarebbe bastata a giustificare il
linciaggio della crudele padrona, se non fosse riuscita ad abbandonare la sua
casa per tempo.
Il rischio di infangare il proprio
buon nome ricorrendo ad eccessi di violenza contro gli schiavi era comunque
compensato dai prodigi produttivi che il morso della frusta poteva compiere. Inasprendo,
a caro prezzo, la sorveglianza alcuni proprietari riuscivano a triplicare il
rendimento degli schiavi in occasione del raccolto. La determinazione dei
sorveglianti doveva però essere assolutamente incrollabile. Olmstead vide al
lavoro una trentina di schiavi, in prevalenza donne, intenti a riparare una
strada della Carolina meridionale. Il sorvegliante cavalcava tra di loro,
facendo schioccare la frusta ed incitandoli senza posa, ma appena giungeva ad
un capo della fila, quelli dall’altra parte smettevano immediatamente di
lavorare e viceversa.
Un sorvegliante del Mississippi si
vantò con Olmstead di non provare nessuna emozione ad infliggere punizioni
corporali agli schiavi e di essere pronto persino ad ucciderli in caso di
insubordinazione, senza provare alcun rimorso di coscienza. Douglass ebbe modo
di incontrare nei suoi anni di schiavitù questo tipo umano di sorvegliante,
freddo ed implacabile, che non parlava se non per ordinare e non ordinava se
non per essere obbedito alla lettera. Il sorvegliante Gore era parsimonioso con
le parole, e generoso con le frustate, la sua ferocia era uguale soltanto
all’indifferenza che mostrava commettendo gli atti più inumani nei confronti
degli schiavi sotto la sua custodia. Un giorno decise che uno schiavo, di nome
Demby, meritava una punizione. Non appena Gore lo colpì, Demby corse via,
andandosi ad immergere fino alle spalle in uno specchio d’acqua a pochi passi
dal campo. Gore lo avvertì che lo avrebbe chiamato tre volte, poi se non fosse
uscito dall’acqua lo avrebbe ucciso. Dopo il terzo appello senza risposta, Gore
puntò con calma il suo fucile e fece fuoco, centrando in pieno la testa del
povero Demby. Il proprietario della piantagione non ebbe nulla da obiettare al
comportamento di Gore quando questi gli spiegò che la morte di Demby era stata
inevitabile per non rischiare di allentare la disciplina tra gli schiavi.
Quando il rigore della disciplina ed i
ritmi di lavoro si facevano insopportabili, gli schiavi ricorrevano alla fuga.
Tra la Virginia e la Carolina settentrionale si estendeva un’ampia zona
paludosa, detta Dismal Swamp, che con
le sue foreste inestricabili offriva un nascondiglio sicuro a numerosi
fuggiaschi. Una alternativa alla sopravvivenza in condizioni estreme, tra gli
acquitrini popolati di insetti e serpenti, era raggiungere gli stati
settentrionali, dove il movimento abolizionista poteva garantire protezione e
soccorso. Dall’inizio dell’Ottocento sino alla guerra civile si sviluppò dagli
stati meridionali sino al Canada una vasta rete di itinerari segreti e di
rifugi chiamata underground railroad,
ferrovia sotterranea, volta ad assicurare agli schiavi una via di fuga.
La crescente determinazione degli
abolizionisti a sostenere ed incoraggiare gli schiavi a riprendersi la loro libertà
finì per urtare la suscettibilità dei piantatori meridionali, che usarono tutta
la loro considerevole influenza politica sul Congresso per ottenere una legge
nettamente repressiva. Il Fugitive Slave
Act, approvato nel settembre del 1850, si rivelò per il sud un rimedio
peggiore del male. Tale legge, consentendo ai proprietari di reclamare un
schiavo fuggiasco in qualunque stato dell’Unione presentando una semplice
dichiarazione, senza che al presunto schiavo venisse concesso di porre il suo
caso davanti ad una giuria popolare ed obbligando gli agenti polizia e le corti
federali a provvedere alla cattura ed alla riconsegna dei fuggiaschi, non solo
si rivelò ben presto di fatto inapplicabile, in quanto lesiva sia della
sovranità degli stati, sia del diritto alla difesa degli imputati, ma suscitò
anche una viva indignazione che si estese a fasce dell’opinione pubblica del
nord prima di allora neutrali o indifferenti al tema della schiavitù.
Dopo l’approvazione della legge sugli
schiavi fuggitivi, la ferrovia sotterranea poté quindi contare su di un maggior
numero di persone disposte a prodigarsi per strappare i neri dalla loro condizione
di schiavitù, tuttavia il numero di schiavi che riuscirono a mettersi in salvo
in Canada o altrove fu nel complesso irrisorio. Si stima che su una popolazione
di circa quattro milioni di schiavi non più di un migliaio ogni anno riuscirono
a conquistarsi la libertà. A molti di coloro che fallirono i piantatori
riservarono dure punizioni.
Olmstead apprese che in Georgia un
sorvegliante era solito strappare con le tenaglie un’unghia di un piede agli
schiavi fuggiaschi. Ad ogni fallito tentativo di fuga il numero di unghie
strappate aumentava. In Alabama un altro sorvegliante confessò al curioso
architetto del Connecticut che quando i suoi cani raggiungevano uno schiavo
fuggiasco non sempre li richiamava, se lo schiavo opponeva resistenza lasciava
che lo sbranassero.
Non tutti i proprietari ritenevano
indispensabile tanta brutalità. Il senatore del Mississippi Jefferson Davis,
destinato a ricoprire la carica di presidente della Confederazione, affidò ad
un suo schiavo di fiducia il compito di organizzare e sorvegliare i lavori
nella sua piantagione, senza ricorrere alla frusta. Il vescovo episcopaliano
della Louisiana, Leonidas Polk, che durante la guerra civile raggiunse il grado
di tenente generale nell’esercito confederato, nutriva verso i propri schiavi
la stessa cieca fiducia del senatore Davis. Un piantatore virginiano dichiarò
ad Olmstead tutto il proprio disprezzo per i sorveglianti che ai suoi occhi non
valevano come gentiluomini la metà di uno schiavo. La descrizione lasciataci da
Douglass di alcuni sorveglianti pare confermare tale opinione. Uno di essi, di
nome Plummer, era “…un miserabile ubriacone, un bestemmiatore empio ed un
mostro feroce …sempre armato di una frusta fatta di pelle di vacca e di un
grosso e pesante bastone…”. Era solito sfregiare così orribilmente il volto
delle schiave da suscitare la collera del suo datore di lavoro, che non era
noto per essere umano e conciliante.
L’indolenza, la trascuratezza e la
fuga non erano le uniche cause delle punizioni. L’abitudine a rubare era diffusissima
tra gli schiavi. Un fiero critico della schiavitù come Jefferson spiegava tale
inclinazione come la naturale tendenza dello schiavo a riprendersi qualcosa da
colui che gli prendeva tutto. L’approccio filosofico di Jefferson non era certo
condiviso da tutti i piantatori del Sud. Il colonnello Lloyd, uno dei padroni
di Douglass, per proteggere i frutti del suo rigoglioso giardino dai continui
furti escogitò un ingegnoso stratagemma: fece cospargere di catrame la
recinzione. Ogni schiavo che fosse sorpreso con macchie di catrame sugli abiti
o sulle mani era considerato, anche in assenza di altre prove, colpevole di
furto e severamente frustato.
Per gli schiavi che si lamentavano
delle razioni alimentari distribuite o che, spinti dalla fame, allungavano le
mani sui beni dei loro padroni era spesso prevista, secondo Douglass, una
punizione più efficace della frusta: costringerli ad ingozzarsi rapidamente
sino a vomitare. Una volta che lo schiavo era del tutto disgustato da ciò che
aveva rubato, il sorvegliante poteva finalmente frustarlo, ricordandogli quanto
fosse equilibrata la dieta stabilita per lui dal suo padrone.
Oltreché indolenti, negligenti, poco
produttivi e all’occasione ladri, gli schiavi erano considerati dai loro
padroni del tutto privi di versatilità. Svolgevano piuttosto male un solo
lavoro ed opponevano una tenace resistenza passiva ad ogni innovazione anche
minima della routine a cui erano
stati abituati. Questa caratteristica degli schiavi più ancora delle altre
frenò lo sviluppo dell’economia sudista. Un accurato esame dei registri delle
piantagioni e dei dati contenuti nei prospetti statistici dei censimenti rivela
che le somme pagate per retribuire gli artigiani erano considerevoli e che la
produzione di manufatti era alquanto scarsa.
Diffidando nelle capacità e
nell’efficienza dei propri schiavi, i piantatori non si arrischiarono mai ad
investire in modo consistente nella produzione di tessuti. Alla vigilia della
guerra civile il Sud produceva circa quattro quinti del cotone grezzo mondiale,
tuttavia i cotonifici sudisti non valevano che un decimo di quelli degli Stati
Uniti. La mancanza di versatilità della manodopera servile impedì non soltanto
l’avvio di attività industriali su larga scala, ma anche la produzione dei
manufatti destinati a soddisfare i fabbisogni più elementari delle piantagioni.
Secondo i dati del censimento del 1860, il 58% dei grandi piantatori delle
contee del Mississippi avevano una produzione di manufatti addirittura nulla,
analoga era la situazione in quasi tutte le contee della Georgia.
Negli anni cinquanta un giornale di
Richmond stimava che il Sud spendesse ogni anno cinque milioni di dollari per
l’acquisto di scarpe e stivali provenienti dal Nord. Nonostante la semplicità
dei metodi di produzione delle scarpe a metà Ottocento, che non richiedevano né
costose attrezzature, né spiccate abilità manuali, i piantatori ritenevano più
conveniente rifornirsi sul mercato settentrionale, a causa della bassissima
produttività degli schiavi addetti ad una attività manifatturiera. Nemmeno i
piantatori più capaci e determinati a sottrarsi alla dipendenza dall’industria
calzaturiera del Nord riuscivano a raggiungere l’autosufficienza mantenendo in
ordine i loro conti. Uno di essi, il giudice Cameron del Nord Carolina, che
possedeva cinque piantagioni e 267 schiavi, dovette ad esempio arrendersi
all’evidenza dei conti e rassegnarsi ad acquistare sul mercato settentrionale
più della metà delle scarpe necessarie per calzare i suoi negri.
Come dimostrano i registri contabili delle
piantagioni, gli schiavi stentavano persino a svolgere mansioni molto semplici
che non richiedevano raffinate competenze. Piantatori che possedevano a volte
centinaia di schiavi erano costretti a ricorrere a lavoratori liberi per far
eseguire piccoli interventi di riparazione o manutenzione degli attrezzi, come
l’affilatura di aratri e falci. Anche l’edificazione dei rozzi alloggiamenti
degli schiavi era quasi sempre affidata a manovali ed artigiani liberi.
La maggior parte delle piantagioni non
riusciva a raggiungere neppure l’autosufficienza alimentare. Erano gli
allevamenti di suini del nord a fornire sia la carne di prima qualità destinata
alle mense dei piantatori, sia quella scadente riservata agli schiavi. Ad
impedire un adeguato sviluppo dell’allevamento di suini e di bovini non erano
né le caratteristiche del suolo, né le condizioni climatiche, ma la mancanza di
capitali dei piantatori e soprattutto la negligenza degli schiavi nell’accudire
gli animali. I tentativi dei piantatori di trasformare i braccianti in
allevatori avevano spesso esiti così disastrosi da rendere preferibile che il
bestiame vivesse per gran parte dell’anno allo stato brado. Gli animali che in
questa condizione di semiabbandono riuscivano comunque a sopravvivere
risultavano inevitabilmente deboli, vulnerabili alle malattie e poco
produttivi. I pochi piantatori che, mettendo in gioco tutto il loro talento
gestionale, riuscirono ad accrescere il proprio patrimonio zootecnico consideravano
gli schiavi del tutto inutili per la cura degli animali.
La specializzazione degli schiavi
avveniva dunque piuttosto di rado, poiché le piantagioni avevano più bisogno di
braccianti per raccogliere il cotone che di artigiani per costruire e riparare
o di addetti alla cura del bestiame. Inoltre, lo sviluppo di competenze negli
schiavi era considerato dai piantatori come un elemento potenzialmente capace
di sovvertire la disciplina. All’acquisizione di capacità professionali
corrispondevano inevitabilmente incentivi, privilegi, riconoscimenti che rischiavano
di innescare un processo di emancipazione che, per quanto larvato, i piantatori
non potevano tollerare.
Il divieto, introdotto in almeno un
terzo degli stati del Sud, di insegnare a leggere e scrivere agli schiavi
rappresenta la prova più evidente della diffusione del timore che lo sviluppo
delle competenze dei negri fosse l’anticamera dell’emancipazione e quindi della
sovversione degli equilibri sociali. Benché nessuno stato meridionale
disponesse di un apparato burocratico e poliziesco in grado di dare piena
applicazione a tale divieto, si registrarono sporadici casi di proprietari
puniti con lievi pene per aver istruito i propri schiavi. Queste rare condanne
esemplari non bastarono ovviamente a dissuadere quei proprietari che, per il
proprio tornaconto o per spirito umanitario, ritenessero indispensabile elevare
culturalmente i loro schiavi.
I timori dei conservatori non erano
tuttavia immotivati. Douglass identificò l’avvio del suo processo di
emancipazione nel giorno in cui la moglie del suo padrone decise di
incominciare ad insegnargli l’alfabeto. Essendo nata e cresciuta al Nord, la signora
Auld non vide nulla di male nell’istruire uno schiavo adolescente, suscitando
così la collera del marito, secondo cui un negro non avrebbe dovuto conoscere
nient’altro che la più cieca obbedienza. Il perentorio divieto del signor Auld
di proseguire le lezioni appena incominciate convinse il giovane Douglass che
il sentiero che conduceva dalla schiavitù alla libertà passava attraverso
l’alfabeto. Da quel giorno con incrollabile determinazione mise in atto ogni
stratagemma per imparare nuove parole e procurarsi carta stampata sui cui
esercitarsi. Ogni pagina che riusciva a leggere rafforzava il suo desiderio di
libertà.
Un altro momento cruciale del processo
di emancipazione di Douglass coincise con l’acquisizione di specifiche competenze professionali. Uno
dei suoi padroni decise di cederlo in prestito ad un costruttore navale di
Baltimora. Iniziò così per Douglass un durissimo apprendistato come carpentiere
navale, in cui anziché rispondere all’arbitrio di un solo padrone, dovette
sottostare agli ordini di trenta operai, ciascuno dei quali si sentiva
autorizzato a comandarlo a bacchetta. La difficile convivenza con gli operai
bianchi gli costò più di una bastonatura, nel corso di una di esse rischiò
persino di perdere un occhio. Tuttavia né il disprezzo dei colleghi, né le
percosse subite gli impedirono nell’arco di qualche mese di imparare un
mestiere. Cessò quindi di essere uno schiavo come tanti altri, cioè una stupida
bestia da soma per diventare un lavoratore che i costruttori navali erano
disposti a contendersi a caro prezzo. Prestando la sua opera come artigiano
Douglass poteva guadagnare fino a nove dollari al giorno, poco meno di un
lavoratore bianco. Del denaro che guadagnava però non gli restava in tasca che
qualche centesimo, concessogli magnanimamente dal suo padrone per dimostrargli
l’apprezzamento per il suo impegno. Quella mancia umiliante costituì agli occhi
di Douglass la prova che perfino il suo padrone si sentiva in colpa a derubare
del tutto un lavoratore del suo salario. La raggiunta consapevolezza di poter
fare da sé, di potersi mantenere senza dover contare sulla benevola protezione
di un padrone rese Douglass quanto mai determinato ad aggiungere alla libertà
spirituale, che aveva conquistato con l’istruzione, quella materiale, rompendo
definitivamente le proprie catene.
Tra i proprietari la predicazione
religiosa era altrettanto temuta dell’istruzione e della formazione
professionale. Visitando un cimitero di Savannah, in Georgia, Olmstead si
imbatté nell’epitaffio di Andrew Brian, pastore della prima Chiesa Battista
negra locale, su cui era scritto che egli era stato imprigionato, frustato e
torturato per aver predicato la parola del Signore.
Quando Douglass, approfittando
dell’atteggiamento tollerante del suo padrone del momento, organizzò
all’interno della piantagione una scuola parrocchiale per insegnare agli altri
schiavi a leggere le Sacre Scritture dovette subire la violenta reazione di
altri piantatori meno illuminati che con la forza imposero la fine delle
lezioni.
Secondo il giudizio di Olmstead, in
molte piantagioni la religione era ridotta a poco più di una farsa. Certamente
non mancarono proprietari come il vescovo Polk che, animati da un sincero
spirito cristiano, si impegnarono personalmente nell’educazione religiosa dei
propri schiavi. Tuttavia all’ostentazione di fervore religioso da parte dei
piantatori non corrispondevano necessariamente né un trattamento più umano
degli schiavi, né un maggiore impegno nella loro educazione spirituale.
Douglass riteneva che i padroni più detestabili e spietati fossero proprio
quelli che usavano la religione come uno strumento di oppressione per
sacralizzare il loro illimitato potere. Uno di essi, lo stimato reverendo Digby
Hopkins, instancabile predicatore della Chiesa Metodista Riformata, era solito
ripetere ai suoi schiavi questa massima: “Che uno schiavo si comporti bene o
male, è compito del suo padrone frustarlo di tanto in tanto, per impedirgli di
dimenticare l’autorità del suo padrone”.
Secondo il giudizio di un acuto
osservatore della società come Alexis de Tocqueville, che nel 1831 visitò gli
Stati Uniti intrattenendo numerose conversazioni con esponenti di ogni
estrazione e di ogni provenienza, l’abitudine ad esercitare un potere
arbitrario, come quello descritto dalla massima del reverendo Hopkins, aveva
corrotto il carattere dei piantatori sino al punto da renderli arroganti,
ottusi, indifferenti al progresso economico e disinteressati al denaro. Il
disprezzo per il lavoro manuale, considerato umiliante per un bianco, aveva
spinto l’élite meridionale ad
adottare uno stile di vita non troppo dissimile da quello dell’aristocrazia
europea, oziosa, priva di industriosità, dedita ai piaceri della caccia ed alle
prove di destrezza, proterva nella difesa dei propri privilegi e del proprio
onore.
Le affinità caratteriali rilevate da
Tocqueville tra gli schiavisti americani e gli aristocratici europei, per
quanto convincenti, non devono tuttavia trarre in inganno. L’immobilismo
dell’economia sudista, orientata ad espandersi per sopravvivere, ma non ad
evolversi, fu determinato anche da insormontabili difficoltà materiali e non
solo da un condizionamento psicologico.
La ricchezza del sud, cioè la massa di
schiavi che possedeva, era al tempo stesso la sua irrimediabile debolezza Avendo
investito gran parte della proprie sostanze nell’acquisto di schiavi, i
piantatori non disponevano di capitali né per introdurre nuove tecnologie, né
per diversificare le proprie attività. Gli stessi schiavi rappresentavano
inoltre un imponente ostacolo a qualsiasi cambiamento. Il trasferimento di
nuove competenze agli schiavi oltreché costoso e dall’esito incerto, a causa
dello stato di arretratezza culturale in cui per secoli era stata lasciata
languire la popolazione nera, sarebbe stato anche estremamente rischioso per la
tenuta degli equilibri della società meridionale. Rimuovere l’indolenza e la
passività degli schiavi per trasformarli in lavoratori versatili e produttivi
avrebbe minato dalle fondamenta l’economia schiavista, innescando un
inesorabile processo di emancipazione. Qualsiasi politica che scalfisse la
peculiare istituzione era perciò inaccettabile per i piantatori. Poiché nessuna
classe dirigente si è mai suicidata, il sistema economico e sociale schiavista
dovette essere abbattuto da un catastrofico evento esterno: quattro anni di
guerra civile ed oltre mezzo milione di morti.
ROBERTO POGGI
roberto_poggi@yahoo.it
Bibliografia
R. LURAGHI, Storia della guerra civile americana,
Milano, Rizzoli, 1994.
R. LURAGHI
(a cura di), La guerra civile americana,
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