Sono stato rimproverato parecchie volte, in vita mia, di essere un soggetto alquanto tranchant, addirittura di essere - cito testualmente - "tagliente come una lama".
Mi permetto di dissentire e di chiarire una volta per tutte il concetto: in condizioni normali, sono persona pacifica, che si fa sostanzialmente i fatti suoi. Quando necessario, mi relaziono con gli altri e ispiro i miei comportamenti alla massima disponibilità. Sono sincero, disinteressato, cooperativo.
Tendo a irrigidirmi quando mi vedo oggetto di manovre e manovrette, quando mi vedo inserito in qualche disegno (professionale, personale, etc.), quando mi si fa oggetto di comportamenti che il soggetto che li adotta chiama A e definisce "neutri", mentre sono B e non sono neutri in alcun modo. A quel punto, invio alcuni messaggi di fastidio, che in genere vengono recepiti. Faccio capire che per me A è A e B è B. E che dire che B è A non ne muta minimamente la natura, dato che B rimane B. Al massimo, un comportamento del genere tende a farmi fare la figura del cretino, e quello proprio non lo accetto.
Non amo inoltre le situazioni di cogenza, quelle in cui, senza dirti "devi fare così e cosà", tentano - con espedienti da asilo infantile - di costringerti a farlo o di fartelo sotto il naso, pretendendo che tu non veda. Non ho problemi con la dissimulazione, so che si usa molto. Ho problemi - e molto gravi, gravissimi - nell'essere considerato un cretino qualunque. Non mi preoccupa di essere oggetto di manovre e manovrette (capita a tutti e, a personalità molto spiccate come la mia, capita più che ad altri): mi offende che si possa pensare che io non sia in grado di scoprirle, prima o poi, e che, una volta scoperte, la mia reazione non sarà adeguata.
Infine, detesto le situazioni oscure o quelle in cui uno deve far finta di non vedere quello che gli sta accadendo sotto il naso. Essere ritenuto, oltre che scemo, anche cieco, mi dà un enorme fastidio. Accumulo rabbia che, ad un certo punto, si avvia ad esplosione...
In una parola, non partecipo a giochi di cui non abbia contribuito a definire le regole. Se le definiscono altri, e cercano di impormele più o meno subdolamente, io rompo.
A quel punto impugno una prima arma, ma non è una spada, è un semplice fioretto. E comincio a lanciare messaggi, in punta di fioretto: "Guardate che ho capito", "guardate che la situazione così com'è non mi va bene", "guardate che, se le cose rimangono in questo modo, io me ne vado".
Sono messaggi nemmeno troppo sub-liminali e tendono a far capire che siamo nell'anticamera dello scontro. Se ci sono reazioni che reputo positive, tutto rientra rapidamente e la situazione ritorna alla normalità. Altrimenti dal fioretto passo alla sciabola, e comincio a menare fendenti.
Non c'è errore tattico peggiore di quello di provocarmi. Se mi si invita a uno scontro, io scendo in campo, non mi tiro mai indietro. Se mi si porta sempre sul limite, sperando che io non compia un atto di rottura, lo compio subito, subitissimo. Detesto le situazioni stiracchiate, quelle in cui si sta insieme, in una società, non si sa bene per quale motivo, forse solo perché nessuno ha il coraggio di rompere. E allora impugno la spada e rompo tutto io. Ho assolutamente le palle per farlo. Non ho paura di niente: delle reazioni, degli strilli di coloro che mi avevano provocato e pensavano che stessi buono a mangiare guano in eterno, del fatto che mi odieranno per la vita o che gli bruceranno a lungo le terga perché non prevedevano che avrei reagito così duramente. Non sfidatemi in combattimento: la mia etica guerriera mi impone di scendere in campo, e di uscirne da vincitore o da morto (e i due esiti mi vanno bene entrambi, sono del tutto indifferenziati per me: mi piace lo scontro, non l'esito del medesimo, se ne esco con onore).
Ricordatevi che, in quanto "guerriero esistenziale", ho un fortissimo "senso del tragico". Dunque non risolvo nulla a "tarallucci e vino". Magari cerco di comporre contrasti precedenti, perché non ho voglia di rompere, ma ricordo e immagazzino tutto. La mia concezione della vita non è da "pace eterna", essenzialmente perché - lo ricordo alle anime giudeocristiane - quella è la definizione classica della morte, non della vita (ma non credo davvero che a dette anime la distinzione sia così chiara...). Dunque, in quanto animato da un profondo "senso del tragico", so ancora distinguere tra vita e morte, e, quando mi rendo conto che si vuole la mia morte "traslata", nel senso che mi si vuol fare aderire a un canone che non condivido, che non è mio, che mi consegnerebbe a una vita che per me sarebbe mille volte peggio della morte, rompo. Rompo tutto, sfascio, devasto.
Posso essere odiato, posso essere disprezzato, posso essere considerato il peggiore degli uomini. Ma nessuno mi ricorderà come il più piccolo degli uomini, come una "brava persona", come colui che si adattava alle manfrine e ai giochettini da salotto altrui, come un soggetto omologato e omologabile. Sarò odiato, per carità, ma con un forte timore reverenziale. Sarò ricordato, come un incubo. Non allieterò i pomeriggi, facendo quello che si voleva che facessi. Devasterò le notti, "in tutti i sensi" [la citazione mi è infinitamente gradita e, considerata la fonte, direi quasi obbligata... Tutto torna indietro, prima o poi, come un boomerang...].
Piero Visani
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