giovedì 7 marzo 2013

Una notte a Glasgow

       20 agosto 1981. Sono ad Edimburgo, la città che è il mio autentico "luogo dell'anima". Giornata scura, ventosa, caratterizzata da frequenti scrosci di pioggia. Un gruppo di amici locali mi invita ad andare con loro a Glasgow, appena 45 minuti di treno, per una serata in allegria, in qualche pub. Mi unisco volentieri. La compagnia è gradevole, e non ho altri programmi.
      Arriviamo a Glasgow che è l'ora di cena e ci dirigiamo verso un pub conosciuto dai miei amici. Noto subito, entrando, che si tratta di un pub cattolico, visto che è decorato di bandiere della Repubblica d'Irlanda e di stendardi del Celtic, il club calcistico locale che raccoglie le adesioni della comunità cattolica. Gli scozzesi, del resto, sono Celti come gli irlandesi (e come me, almeno per parte di madre) e gli scozzesi cattolici si sentono ancora più celti e più anti-inglesi.
      Ceniamo al pub, come si è soliti fare colà, con cibo locale e dalle porzioni più che abbondanti. Poi la serata prosegue con un po' di musica dal vivo e fiumi di birra.
       Di colpo, di tavolo in tavolo comincia a correre una ferale notizia: anche Michael Devine, il decimo partecipante allo sciopero della fame che ha visto il suo primo martire in Bobby Sands, è morto, dopo uno sciopero iniziato il 22 giugno.
       Tristezza, costernazione, rabbia. Siamo tutti simpatizzanti per la libertà d'Irlanda. Ci sembra impossibile che il diritto all'autodeterminazione nazionale, riconosciuto nelle più sperdute lande africane, qui sia un miraggio.
        Alla rabbia subentra lo sconforto. Minuti di silenzio, silenzio irreale in un pub scozzese in una serata d'estate. Di colpo, una voce si leva, immediatamente seguita da decine di altre: qualcuno ha cominciato a cantare, in inglese, The Soldier's Song. Per un attimo, noto il sacrilegio di cantare in inglese un inno scritto originariamente in gaelico e intinto nel sangue di migliaia di patrioti irlandesi. Ma le voci salgono, non possiamo pretendere che dei Lowlanders sappiano il gaelico, e neppure io lo so...
        In breve, tutti cantano e tutti piangono. E io per primo, per quanto ci provi, non riesco a resistere a quella terribile ondata emotiva, una delle più belle e più grandi che abbia mai provato in vita mia. Per provarne una simile - anzi superiore perché la Patria in ballo sarà la mia, non una d'elezione - dovrò attendere almeno un ventennio, quando avrò l'onore e l'assoluto privilegio di cantare l' "Inno della Folgore" accanto a mio zio materno, il caporalmaggiore Augusto Rosset, reduce non pentito di El Alamein, in occasione del Raduno dell'Associazione nazionale paracadutisti a Torino.
       Il canto, la storia, la vita, la morte, il sacrificio, la passione, la fede. Ricordo come se fosse oggi i volti di quei ragazzi, di quelle donne, tutti rigorosamente scozzesi. E sento tutt'oggi il loro canto montare. E lo sento e lo risento ogni volta che sono in dubbio, che sono triste, che mi sento sconfitto. L'ho perfino inserito nella suoneria del mio cellulare.
       E' stato uno dei momenti più belli della mia vita: vedere uomini e donne cantare per una fede, una Patria, una vita, un camerata caduto. Non lo dimenticherò mai.

P.s.: Allego un video sul tema, tanto per rendere l'idea, ma non fu la stessa cosa: quel momento era intriso nel sangue, non in uno spettacolo



                 Piero Visani

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