Tennis club. Al termine di due ore di serrato palleggio, un amico mi dice ironicamente: "hai una visione molto conflittuale delle cose. Ma ti giova...?".
Tornando a casa in auto, rifletto sulle sue parole. E' vero, tale visione conflittuale ce l'ho, ma non mi sono mai posto il problema se mi giovi o meno. Se attaccato mi difendo, se ho voglia di attaccare a mia volta, lo faccio.
Probabilmente non mi giova granché, in quest'epoca di sodomie, anzi non mi giova affatto. Ma non mi sono mai posto il problema di cambiare. Seguo quanto mi detta l'istinto.
Dicono che dovrei comportarmi diversamente, che dovrei essere molto più dialettico, molto più abile nelle relazioni sociali. Ma per quale ragione? Io non mi devo vendere, non appartengo a nessun mercato. Faccio come devo, come ritengo giusto. Non mi preoccupo di piacere. Non sono una merce, dunque non mi devo vendere. Sono io, e tale rimango.
E' opinione diffusa, quando si parla di me, che questo mio atteggiamento non mi abbia mai giovato, a nessun livello. Giuro che non mi sono mai posto il problema. Non l'ho mai neppure sentito come un'attestazione di diversità. Semmai, è vero che non mi va di comportarmi come gli altri, ma non per fare l' "originale" a ogni costo, bensì perché io ho un carattere, che molti definiscono un cattivo o un pessimo carattere (a seconda dei livelli di benevolenza che nutrono nei miei confronti).
Ho sempre fatto e faccio quello che ritengo giusto, anche quando so che non mi serve a raccogliere simpatie o consenso. La captatio benevolentiae non rientra nella mia visione del mondo. Sarei andato molto più lontano se vi fosse rientrata? Probabilmente sì, ma vi sarei andato non come Piero Visani, bensì come un'altra persona. Era quello che cercavo? Essere un' altra persona, non essere me stesso, avere una dimesione sociale spendibile? E per quale ragione, poi? Per piacere in quanto non io, ma di fatto un altro?
Per contro, sono rimasto pervicacemente attaccato a me stesso, alla mia visione del mondo. Non ho fatto molta carriera, forse, ma non ho mai sentito nessuno che mi dicesse che ero cambiato, che non ero più io, che non mi riconosceva più. Semmai, ho sentito molti che affermavano esattamente il contrario.
Agendo così, mi sono fatto un discreto numero di nemici, ho raccolto robuste dosi di disistima, qualche volta sono stato messo all'indice, anche a tempo indeterminato. Non me ne può importare di meno. Se la sono presa con me e io posso dire perfino che li capisco, ma perché avrei dovuto essere diverso da come sono? Perché avrei dovuto conculcare la mia natura? Perché avrei dovuto essere un altro, possibilmente quello che altri volevano che fossi?
In un mondo dove i valori conservassero ancora un senso, il mio modo di essere sarebbe apprezzato, anche quando non compreso. Per contro, il mio idealismo e la mia coerenza sono spesso oggetto di un'ostilità totale, quasi che mi comportassi come il peggiore dei malfattori. Mentirei se dicessi che essere oggetto di tanta ostilità per l'esibizione di virtù primigenie mi fa piacere, ma ci ho fatto l'abitudine, ormai. Ho scelto da adolescente di non essere "politicamente corretto" e l'ho scelto molto prima che la political correctness diventasse di moda. Sono rimasto fedele a questa scelta, come in genere rimango fedele alla mia visione del mondo. Molti lo detestano, questo mio atteggiamento. Mi vorrebbero diverso, più spendibile, più relazionale, più sociale. Dolente di non poterli accontentare, mi accontento di essere me stesso. Non sono cambiato prima, non cambierò ora. Sono solito pagare prezzi altissimi per rimanere fedele all'idea che ho di me. Per quale ragione dovrei cambiare? Per ricevere le lodi di chi - implicitamente - nel farle mi starebbe dicendo: "Bravo, finalmente sei venuto meno ai tuoi principi. Lo vedi? Sei uguale a noi". Rassegnatevi: non lo sarò mai. E continuate pure a biasimarmi: ci sono abituato.
Piero Visani
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