Stordita dallo squillare degli ottoni
e dai canti patriottici di un coro di duemilaquattrocento voci, emozionata
dalle fastose coreografie ideate dal pittore Jacques-Louis David, estasiata
dalle parole ispirate pronunciate da Robespierre, in qualità di presidente di
turno della Convenzione, una folla di circa cinquecentomila parigini partecipò,
l’8 giugno del 1794, alla Festa dell’Essere Supremo. Per il calendario
gregoriano era il giorno di Pentecoste, che commemora la discesa dello Spirito
Santo sugli Apostoli e quindi la nascita della Chiesa, per il calendario
rivoluzionario era il 20 pratile dell’anno secondo, un giorno di catarsi
collettiva attraverso la condanna dell’ateismo.
Nei giardini del palazzo delle
Tuileries fu allestito un anfiteatro per contenere il coro e fare da sfondo
al rogo simbolico dell’ateismo ed al
disvelamento della Saggezza, al centro del campo di Marte fu eretta una
imponente montagna di gesso e cartapesta, sormontata da una colonna alta
quindici metri su cui si ergeva un Ercole colossale con in mano una statua
rappresentante la Libertà. In entrambi gli scenari, Robespierre, splendidamente
abbigliato con una redingote azzurra, una gran fascia tricolore ed un cappello
piumato, fu al centro dell’attenzione, suscitando con i suoi sermoni l’ovazione
del pubblico. Descrivendo i tratti morali del popolo rigenerato dalla
rivoluzione ed illuminato dalla Saggezza ispirata dall’Essere Supremo affermò:
“Siamo terribili nelle disfatte, modesti e vigili nei successi; siamo generosi
verso i buoni, compassionevoli verso gli infelici, inesorabili verso i malvagi,
giusti verso tutti”.
Il sincero entusiasmo popolare per il
coraggioso sforzo di coniugare Ragione e Natura, Virtù repubblicana e Libertà
fu testimoniato non solo dagli applausi, ma anche dalle centinaia di lettere di
congratulazioni inviate a Robespierre da ogni angolo delle Francia. Alcune di esse raggiungevano toni addirittura
adoranti: “Ammirevole Robespierre, fiamma, colonna, pietra angolare della
Repubblica… sostegno della Patria, padre protettore del buon popolo.”;
“Protettore dei patrioti, genio incorruttibile, Montagnardo illuminato che vede
tutto, prevede tutto, sventa tutto...” Ed ancora: “Tu sei la mia divinità
suprema, io ti guardo come un angelo custode…, come il Messia che l’Essere
eterno ci ha promesso per riformare ogni cosa…”
Tra i deputati invece, costretti dal
cerimoniale al ruolo di mute comparse ornate di spighe di grano e di fiori
attorno al loro presidente nelle vesti di carismatico pontefice massimo del
culto dell’Essere Supremo, non mancarono mugugni di dileggio e batture livorose.
Bourdon de l’Oise disse minaccioso: “Non c’è che un passo tra il Campidoglio
e la rupe Tarpea“, riferendosi alla
roccia da cui nella Roma antica venivano gettati i traditori. Lecointre, un ex
alleato di Robespierre, urlò con rabbia: “Ti disprezzo tanto quanto ti
detesto”. Thuriot, un seguace di Danton scampato alla ghigliottina, fu udito
mormorare: “Guarda quello stronzo. Non gli basta essere il padrone. Vuol essere
anche Dio”.
Appena due giorni dopo le solenni
celebrazioni dell’Essere Supremo, il sarcasmo di alcuni deputati si tramutò in
sgomento per la propria incolumità quando Georges Couthon, un membro del
Comitato di Salute Pubblica fedelissimo di Robespierre, presentò alla
Convenzione, senza alcuna preventiva consultazione del Comitato di Sicurezza
Generale, il testo di una nuova legge sui poteri del Tribunale Rivoluzionario.
Anche chi si era illuso che i roghi
simbolici, le scenografie ideate da David ed i canti corali fossero il preludio
di una stagione di pacificazione dovette bruscamente ricredersi. Nella visione
di Robespierre e dei suoi più accesi sostenitori la virtù repubblicana ispirata
dall’immortalità dell’anima non poteva essere disgiunta dall’inflessibile
disciplina necessaria ad infondere il terrore a tutti i malvagi. Del resto i
nemici della rivoluzione continuavano a proliferare. Il 4 Pratile, Henry
Admirat, un impiegato della lotteria nazionale, aveva sparato contro il
deputato Collot d’Herbois, senza colpire il bersaglio. Il giorno successivo una
ragazza di sedici anni, Cécile Renault, era stata arrestata mentre tentava di
introdursi, armata di due piccoli coltelli, nell’appartamento di Robespierre in
rue Saint Honoré, presso la famiglia Duplay.
Il fallito attentato della Renault era
stato preceduto e seguito da alcune lettere anonime contenti minacce di morte.
Robespierre ne era rimasto sconvolto ed aveva riversato tutta la sua
inquietudine in un sovraeccitato discorso di denuncia delle subdole trame
controrivoluzionarie pronunciato alla Convenzione: “Calunnie, tradimenti,
incendi, avvelenamento, ateismo, corruzione, carestia, sono stati prodighi di
tutti i loro crimini; resta loro ormai soltanto l’assassinio, e poi
l’assassinio, e poi ancora l’assassinio…Dicendo queste cose, affilo pugnali
contro di me…”
Lo stato d’animo di Robespierre, cupo
e sospettoso ai limiti dell’ossessione, ispirò la legge di pratile. Illustrandone
il contenuto Couthon, che poteva vantare non solo un passato da avvocato, ma
anche da terrorista a Lione, affermò: ”…l’indulgenza è un’atrocità…la clemenza è parricidio…”
Muovendo da questo assunto, gli accusati meritavano di essere privati di ogni
residuo diritto alla difesa. La presunzione di innocenza doveva essere
cancellata. Per rendere più spedita la giustizia rivoluzionaria, l’esame delle
prove e delle testimonianza veniva lasciato all’arbitrio dei giudici, a cui spettava
soltanto il compito di stabilire se un accusato apparteneva o meno alla vasta
schiera dei nemici del popolo. La pena prevista per ogni delitto di competenza
del Tribunale Rivoluzionario era la morte. La legge stabiliva delle categorie
di nemici del popolo talmente ampie e vaghe da potervi far rientrare chiunque. Dovevano
essere puniti con la ghigliottina non solo coloro che avessero preso le armi o
tramato contro la repubblica, ma anche chiunque avesse diffuso false notizie
per dividere o turbare il popolo, chiunque avesse ispirato scoraggiamento,
depravazione della morale, corruzione della coscienza pubblica, oppure arrecato
pregiudizio alla purezza ed all’energia del governo rivoluzionario. Neppure i
rappresentanti eletti dal popolo potevano sperare di criticare impunemente il
governo. Un articolo della legge lasciava infatti intendere che al Comitato di Salute
Pubblica ed a quello di Sicurezza Generale fosse riconosciuta la facoltà di tradurre
i deputati al Tribunale Rivoluzionario, senza l’autorizzazione preliminare
della Convenzione.
Alcuni deputati si sentirono
personalmente minacciati dalla presunta abolizione di fatto di ogni immunità
parlamentare. Il deputato della Charente Pierre-Charles Ruamps, tentò invano,
arrivando persino a minacciare di farsi saltare le cervella, di ottenere un
aggiornamento della seduta al fine di emendare il testo presentato da Couthon.
Robespierre in qualità di presidente della Convenzione fu irremovibile: la
lotta contro i nemici della repubblica era prioritaria rispetto all’assurda
richiesta di rassicurazioni di alcuni deputati. Soprattutto per chi come lui era
convinto in cuor suo che i più pericolosi nemici della Repubblica sedessero
proprio sugli scranni della Convenzione. Fu sufficiente un suo invito all’unità
per piegare la maggioranza al suo volere ed ottenere oltre all’approvazione
della legge di pratile, senza indugi e senza modifiche, anche il rinnovo dei
poteri in scadenza del Comitato di Salute Pubblica.
Il giorno seguente, Bourdon de l’Oise,
interpretando le apprensioni di molti colleghi, tornò alla carica per ottenere
maggiori garanzie formali rispetto ad eventuali ritorsioni da parte del governo
nei confronti dei rappresentanti del popolo. Il deputato Merlin de Douai
intervenne facendo notare che il diritto della rappresentanza nazionale di
mettere in stato di accusa i suoi membri era inalienabile, pertanto ogni
ulteriore rassicurazione era superflua. La Convenzione approvò questa
affermazione e stabilì di non votare la proposta di Bourdon de l’Oise.
Rassicurati dalla rinnovata fiducia
espressa dall’assemblea verso gli intenti e l’operato del Comitato di Salute
Pubblica, Couthon e Robespierre non esitarono a passare al contrattacco. Nella
seduta del 24 Pratile, Couthon respinse come atroci calunnie le accuse di
Bourdon de l’Oise circa la volontà dell’esecutivo di minacciare i deputati.
Dichiarò inoltre che il Comitato di Salute Pubblica era pronto a dimettersi se
la fiducia dell’assemblea fosse venuta meno. Lo scrociare degli applausi a
sostegno di Couthon spinsero Bourdon de l’Oise a balbettare le sue scuse. Si
affrettò a ridurre le accuse pronunciate il giorno precedente ad una innocente
richiesta di chiarimenti, che non aveva alcuna intenzione di mettere in
discussione la fiducia nel Comitato di Salute Pubblica.
Non pago di tale imbarazzante marcia
indietro, Robespierre fece il suo affondo. Respinse sdegnosamente la
ritrattazione di Bourdon de l’Oise e lo accusò di voler dividere con le sue
spregevoli insinuazioni la Montagna dal Comitato di Salute Pubblica, nonché di
ambire a diventare un capo di partito. Bourdon de l’Oise tentò timidamente di
difendersi, mentre Robespierre si lanciava in una furiosa arringa contro i
calunniatori ed i cospiratori che minacciavano la Repubblica.
Quando Bourdon de l’Oise esasperato
tentò di incalzarlo, sfidandolo ad esibire le prove delle trame che andava
delineando ed a fare apertamente i nomi dei colpevoli, ottenne una risposta
evasiva e minacciosa: “Ne farò i nomi quando sarà necessario. In ogni istante
della notte, persino, ci sono intriganti che si industriano a insinuare nella
mente degli uomini di buona fede che siedono sulla Montagna le idee più false,
le calunnie più atroci…” Ancora una volta concluse il suo intervento con un
accorato appello all’unità per salvare la Repubblica, che fu accolto da
fragorosi applausi.
Bourdon de l’Oise non ebbe il coraggio
di replicare. Merlin de Douai si affrettò a presentare le sue scuse, nel timore
che le sue considerazioni sui diritti inalienabili dell’assemblea potessero
essere state interpretate come una manifestazione di sfiducia verso il Comitato
di Salute Pubblica. Robespierre benevolmente lo rassicurò, dichiarando di aver
perfettamente compreso che lo scopo della sua mozione era contrastare quella di
Bourdon de l’Oise. Merlin de Douai poteva dunque continuare a fare sonni
tranquilli: non era da annoverare nella schiera dei cospiratori e degli
intriganti, a differenza di altri come Tallien che si ostinavano a parlare in
continuazione di ghigliottina per avvilire e turbare la Convenzione.
L’appello di Robespierre all’unità e
la sua stoccata rivolta contro Tallien trovarono il pronto appoggio di un altro
autorevole membro del Comitato di Salute Pubblica come Jacques-Nicolas Billaud,
che si sentì in dovere di esortare la Convenzione ad aprire gli occhi contro
gli uomini che diffondevano menzogne e timori infondati. Subito dopo Billaud
prese la parola un altro membro del Comitato di Salute Pubblica, Bertrand
Barère per spostare l’attenzione dell’assemblea dai nemici interni a quelli
esterni. Dando sfogo alla sua indignazione lesse alcuni brani di un articolo
pubblicato su di un giornale inglese che riportava la cronaca di un ballo in
maschera in cui gli aristocratici londinesi si erano divertiti a vestire i
panni dei sanculotti. Una dama travestita da Charlotte Corday, l’assassina di
Marat, era uscita a sorpresa da un sarcofago con in mano un pugnale sanguinante
ed aveva inseguito per tutta la serata, tra le risate generali, un malcapitato
mascherato da Robespierre. Il macabro aneddoto rinfocolando l’odio per
l’aristocrazia serrò i ranghi della maggioranza ed affermò l’idea, evidente
agli occhi dei nemici oltre la Manica, che uccidere Robespierre equivalesse ad
uccidere la rivoluzione stessa.
Gli interventi di Billaud e di Barère,
che privarono Tallien della possibilità di replicare alle accuse subite,
testimoniano, a dispetto delle ricostruzioni di comodo posteriori a termidoro,
la coesione del Comitato di Salute Pubblica, nonché l’intatta autorevolezza di
cui godeva Robespierre a pratile.
I primi a subire il rigore della legge
di pratile furono gli attentatori Henry Admirat e Cécile Renault. I loro
processi furono talmente sbrigativi che le motivazioni politiche dei loro gesti
rimasero nebulose. Vasta fu invece la rete di complici individuata sulla base
di vaghi sospetti, senza alcun riscontro oggettivo. Insieme a Cécile furono
giustiziati suo padre, suo fratello e sua zia. In cinquantaquattro salirono sul
patibolo indossando la camicia rossa riservata ai criminali più esecrabili come
i parricidi e gli avvelenatori.
Nelle settimane successive il terrore
si intensificò ulteriormente. Da una media di cinque esecuzioni capitali al
giorno nel mese di germinale (marzo-aprile), si passò a diciassette in pratile
(maggio-giugno) ed a ventisei in messidoro (giugno-luglio). In particolare dal
10 giugno al 27 luglio 1794 furono eseguite 1285 condanne a morte. Né la
chiusura di tutti i Tribunali Rivoluzionari di provincia, ad eccezione di
quello Orange nel Midi, impegnato nella repressione della sollevazione di
Tolone, né il netto miglioramento della situazione militare riuscirono ad
attenuare la stretta terroristica sulla Francia, voluta da Robespierre.
Il 26 giugno, appena una decina di
giorni dopo l’esecuzione dei cinquantaquattro in camicia rossa, il generale
Jourdan riportò a Fleurus una schiacciante vittoria sugli eserciti della
coalizione controrivoluzionaria comandata dal duca di Sassonia Coburgo. La resa
di Charleroi aprì a Jourdan la strada verso Bruxelles, che ai primi di luglio
gli alleati furono costretti ad evacuare per ritirarsi oltre i confini del
Belgio.
Mentre il boia Sanson faceva
funzionare a pieno ritmo la ghigliottina e l’armate rivoluzionarie ritrovavano
finalmente il loro slancio offensivo, alcuni deputati della Convezione vivevano
nella continua angoscia di essere arrestati. Per darsi coraggio circolavano
armati, disertavano le riunioni pubbliche e preferivano dormire a casa di
amici, piuttosto che nel loro letto.
Tracciando nella seduta del 24 pratile
il quadro della cospirazione senza indicare con precisione tutti i colpevoli, Robespierre
involontariamente favorì il coagularsi delle forze a lui avverse. Quella
repressione annunciata, ma rimasta in sospeso pose le premesse più feconde alla
congiura per abbatterlo.
I più inquieti per la loro sorte e
quindi i più determinati nel ricercare alleati disposti a sfidare Robespierre
furono i terroristi richiamati dalle loro missioni in provincia, che sapevano
di aver perso la stima e la fiducia del Comitato di Salute Pubblica. Tallien e
Bourdon de l’Oise, destinatari delle allusioni tutt’altro che amichevoli di
Robespierre nella seduta del 24 pratile, furono subito tra i più attivi. Per
guadagnare il tempo necessario a tessere la tela della cospirazione, Tallien
decise ancora una volta di interpretare la parte del patriota calunniato, si
affrettò a scrivere a Robespierre ed a Couthon accorate lettere piene di parole
di amicizia e di riconciliazione. Come probabilmente prevedeva non ottenne
alcuna risposta, il suo passato lo condannava.
A Bordeaux Tallien aveva esercitato il
suo potere di deputato in missione con ferocia. Non si era accontentato di
tagliare la testa ai sospetti controrivoluzionari, si era spinto sino a
spogliare le chiese del loro tesoro ed a strappare ai preti atti di abiura in
aperta violazione del principio della libertà di culto. Il suo iniziale zelo
fanatico d’un tratto si era mutato in un atteggiamento di mite clemenza dopo
essere diventato l’amante di Thérésia Cabarrus, una seducente giovane di
origine spagnola, ex moglie del marchese Devin de Fontenay. Dispensando, dietro
pagamento, patenti di civismo alla nobiltà locale, la coppia aveva accumulato
in breve tempo una fortuna. L’ostentazione di uno stile di vita principesco,
finanziato dal peculato e dal ricatto, aveva finito per suscitare
l’indignazione dei più sinceri patrioti, costretti ogni giorno a fare i conti
con le privazioni imposte dalla guerra. Il Comitato di Salute Pubblica non
aveva lasciato cadere nel vuoto accuse così gravi ed aveva richiamato Tallien a
Parigi. Le sue giustificazioni alla Convenzione gli avevano risparmiato una
accusa formale, tuttavia non avevano convinto fino in fondo Robespierre che in
pratile aveva ordinato l’arresto della Cabarrus, che, oltre ad essere straniera
e con un passato nobiliare, gli appariva sospetta a cominciare dal soprannome
che si era guadagnata a Bordeaux: Notre Dame de Bon Secours. Dal carcere
Thérésia fece pervenire al suo amante un lapidario biglietto per spronarlo
all’azione: “Io muoio perché appartengo ad un vigliacco…”
François-Louis
Bourdon de l’Oise era
disprezzato dall’”Incorruttibile” almeno quanto Tallien. I meriti rivoluzionari
che aveva acquisito partecipando prima alla presa della Bastiglia, poi
all’assalto delle Tuileries, infine condividendo le posizioni più radicali
assunte dalla Montagna, erano stati del tutto offuscati dalla sua missione in Vandea.
Robespierre era solito compilare dei dossier riservati sui deputati, a
proposito di Bourdon de l’Oise aveva scritto: “Si è coperto di crimini in
Vandea dove si è concesso… il piacere di uccidere volontari di propria mano.
Combina in sé perfidia e violenza”.
Un altro deputato con un
compromettente passato era Joseph Fouché. Prima ancora di scagliarsi contro Bourdon
de l’Oise e Tallien, Robespierre si era occupato di regolare i conti in sospeso
con Fouché nella seduta del Club dei giacobini del 23 pratile. La loro
conoscenza risaliva a prima della rivoluzione, ad Arras l’ambizioso avvocato e
l’altrettanto ambizioso insegnante di scienze presso il collegio degli oratoriani
avevano fatto parte dei rosati, un circolo culturale frequentato dagli amanti
della poesia, degli svaghi letterari, dell’amicizia, del vino e delle rose.
Eletto alla Convenzione nel collegio di Nantes, Fouché si era avvicinato prima
ai girondini, poi, dando prova dell’opportunismo destinato a caratterizzare la sua
lunga e travagliata carriera politica, si era allineato alle posizioni dei giacobini
con il voto a favore della condanna a morte di Luigi XVI. Tale improvviso
ravvedimento politico aveva rinvigorito la sua amicizia con Robespierre,
consentendogli di diventare un frequentatore piuttosto assiduo
dell’appartamento di rue Saint Honoré, dove aveva avuto modo di corteggiare,
probabilmente più per calcolo che per amore, la sorella dell’”Incorruttibile”,
Charlotte. Il progetto matrimoniale, inizialmente incoraggiato da Robespierre,
era tuttavia svanito a causa della condotta scellerata di Fouché durante la sua
missione a Lione. Il suo predecessore, Couthon, si era limitato ad accanirsi
sui simboli della prosperità lionese. Nell’ottobre del 1793 aveva personalmente
inaugurato, dopo aver pronunciato un violento discorso, la demolizione dei
palazzi aristocratici affacciati su Place Bellecour. La Convenzione era rimasta
delusa da un approccio così moderato e si era affrettata a sostituire Couthon
con Fouché e Collot d’Herbois. Pur senza interrompere il programma di
demolizione della città, che anzi era proseguito più spedito grazie all’impiego
della polvere da sparo, i due deputati in missione si erano impegnati a lavare
con il sangue l’onta della sedizione. Giudicando troppo lenta ed inefficiente
la ghigliottina, avevano disposto che si facesse ricorso ai cannoni caricati a
mitraglia per eseguire le condanne capitali. Tale metodo sbrigativo, capace di
soddisfare l’impazienza rivoluzionaria, aveva prodotto in poche settimane quasi
duemila vittime tra la borghesia lionese. Il teatro di queste atrocità era
stata la Plaine des Brotteaux, sulle rive del Rodano, affinché i cadaveri
insanguinati dei condannati, affidati alle acque del fiume giungessero come un macabro
monito fino alle mura di Tolone, occupata dagli inglesi e dai
controrivoluzionari.
L’eco dei mitragliamenti di Lione era
giunta sino al Comitato di Salute Pubblica, suscitando l’indignazione di
Robespierre, a cui alcuni patrioti lionesi si erano rivolti per denunciare gli
eccessi della repressione. Nell’aprile del 1794, una decina di giorni dopo
l’esecuzione degli hébertisti, l’ala più radicale ed estremista della
rivoluzione, Fouché era stato richiamato a Parigi a rendere conto del suo
operato. Intuendo le insidie del nuovo clima politico, prima di lasciare Lione
Fouché si era premurato di inviare al patibolo il boia ed il suo aiutante,
testimoni ingombranti del massacro che aveva perpetrato. Tale precauzione
tuttavia non aveva rafforzato la sua posizione. La Convenzione, ancora scossa
dall’eliminazione di Danton e di Hébert, aveva accolto con freddezza le sue
giustificazioni, rinviandone l’esame al Comitato di Salute Pubblica. In un
colloquio privato, svoltosi alla presenza di Charlotte, Robespierre aveva
mostrato un tale disprezzo per le balbettanti scuse di Fouché da suonare non
solo come una rottura ufficiale del fidanzamento, ma peggio come una sentenza
di morte, da eseguire in data da destinarsi. Anziché attendere con
rassegnazione l’atto di accusa che lo avrebbe condotto alla ghigliottina,
Fouché, animato dalla forza della disperazione, aveva deciso di giocare
d’anticipo, sfidando il suo potente avversario. Con incrollabile determinazione
si era impegnato a tessere un’ampia rete di relazioni all’interno del Club dei
giacobini, dove la brutalità di cui aveva dato prova a Lione era considerata da
molti un merito patriottico. Grazie a questo abile lavorio, il 18 pratile era
stato eletto a larga maggioranza alla presidenza del Club dei giacobini.
Superato l’iniziale stupore, nessuno prima di allora aveva mai osato sfidarlo
con tanta sfrontatezza, Robespierre aveva reagito nella seduta del 23 pratile.
Prendendo a pretesto un reclamo dei patrioti di Nevers contro l’esecuzione di
innocenti, aveva attaccato apertamente Fouché, che era stato inviato in
missione anche in quel dipartimento. L’assemblea dei giacobini aveva
accompagnato con fragorosi applausi l’invocazione alla difesa dell’innocenza in
quanto prima virtù repubblicana, costringendo il presidente a balbettare
qualche imbarazzata parola a sua difesa, prima di porre frettolosamente termine
al dibattito. Dopo questo scontro pubblico, in cui l’”Incorruttibile” aveva
ancora una volta usato il proprio immenso prestigio come un’arma per atterrare
il suo avversario prima di finirlo, Fouché era scivolato nella clandestinità,
non aveva più messo piede al Club di rue Saint Honoré, aveva disertato le
sedute della Convenzione, pur continuando con discrezione a moltiplicare i
contatti con numerosi deputati. A tutti andava ripetendo che Robespierre,
Saint-Just e Couthon si accingevano a mettere in atto una nuova epurazione tra
i banchi della Convenzione, ben più radicale di quella che si era abbattuta
prima sui girondini, poi sui dantonisti ed infine sugli hébertisti.
Robespierre non aveva dato respiro
alla sua preda, in una successiva seduta dei giacobini era tornato ad attaccare
Fouché, prudentemente assente, invitandolo a giustificarsi per il suo operato
in missione. Il presidente ormai latitante aveva inviato al Club una lettera in
cui cortesemente declinava l’invito a giustificarsi prima che il Comitato di
Salute Pubblica si fosse pronunciato. Questa fragile difesa, fondata sul
rispetto del galateo istituzionale, offrì a Robespierre l’occasione per
sferrare il 23 messidoro (11 luglio) un nuovo e micidiale attacco. Lo indicò
senza mezzi termini come il capo della cospirazione che minacciava la
repubblica, lo definì un “impostore vile e spregevole”, la cui condotta era una
confessione di colpevolezza, un uomo le cui mani “…grondavano di rapine e di
crimini”. L’assemblea dei giacobini non poté fare altro che deliberare
l’espulsione del suo presidente come indegno. Tale marchio d’infamia che predestinava alla
ghigliottina rese la predicazione di Fouché ancora più convincente. Altri ex
terroristi come Barras, Fréron si mostrarono ben disposti a fare fronte comune
con lui per tentare di salvarsi la testa.
Anche Barras e Fréron avevano tentato
di riconciliarsi con Robespierre dopo essere stati richiamati a Parigi, nel
maggio del 1794, dalla loro missione sanguinaria nel Midi. Oltre all’accusa di
aver versato molto sangue innocente, insieme a quello impuro dei
controrivoluzionari, pesava su di loro il sospetto di essersi arricchiti con il
saccheggio di Marsiglia e di Tolone. Il breve colloquio si era svolto in rue
Saint Honoré, nella camera di Robespierre mentre questi era impegnato nella sua
meticolosa toilette quotidiana. Fréron aveva preso la parola per primo,
smentendo con sdegno le calunnie diffuse a proposito della loro missione.
Robespierre con il volto appena imbiancato di cipria aveva mantenuto un
silenzio glaciale finché i due deputati non si erano congedati umiliati. Rievocando
nelle sue memorie quell’espressione impenetrabile Barras scrisse: “Non ho mai
visto nulla di così impassibile nel marmo ghiacciato delle statue o nel viso
dei morti già seppelliti.” La ritrattazione dei principali accusatori di Fréron
e di Barras aveva in seguito riabilitato i loro nomi in seno alla Convenzione
ed al Club dei giacobini, tuttavia il silenzio minaccioso dell’”Incorruttibile”
aveva continuato ad inquietarli come il presagio di un castigo imminente.
Soprattutto dopo l’approvazione della legge di pratile, Barras e Fréron avevano
attirato attorno a loro altri deputati, tra cui Curtois e Merlin de Thionville,
preoccupati delle intenzioni repressive di Robespierre. La rosticceria Doyen
sugli Champs Elysées ed il Caffè Corazza in prossimità del Palais Royal erano
diventati i luoghi di ritrovo degli oppositori del regime in attesa di trovare
il coraggio di agire.
Al gruppo dei cospiratori si unirono
anche Carrier e Rovère. Carrier aveva superato in efferatezza qualunque altro
deputato in missione. Inviato a Nantes nell’agosto del 1793 per punire i
cosiddetti briganti vandeani, aveva applicato metodi ancora più sbrigativi dei
mitragliamenti: le noyades, gli
annegamenti di massa nelle acque della Loira dei sospetti di simpatie
controrivoluzionarie, dei sacerdoti, delle suore, dei rivoltosi vandeani con le
loro famiglie, bambini e neonati compresi. Le vittime, in totale tra duemila e
quattromila ottocento a seconda delle stime, venivano caricate, incatenate a
gruppi, su barconi dalla chiglia piatta che venivano affondati a colpi di mazza
al centro del fiume. Chi tentava disperatamente di salvarsi gettandosi in acqua
veniva massacrato a colpi di lancia e di sciabola. Talvolta gli aguzzini si
divertivano a schernire le loro vittime incatenandole seminude a coppie in pose
oscene. Poiché tale sistema di annientamento dei nemici della rivoluzione
richiedeva carnefici dalla coscienza particolarmente indurita oppure
ottenebrata, Carrier aveva creato la “Legione Marat”, composta da sanculotti
spietati, ad essi aveva affiancato i cosiddetti “Ussari Americani”, un gruppo
di ex schiavi di Santo Domingo, assetati di vendetta. Preferendo passare il suo
tempo ad ubriacarsi, Carrier non aveva assunto direttamente il comando delle
operazioni, ma lo aveva affidato a dei suoi luogotenenti senza scrupoli. Questa
delega non gli aveva risparmiato l’esecrazione di Robespierre che tuttavia
aveva deciso di non procedere immediatamente alla sua punizione. Al suo rientro
a Parigi, grazie al prestigio di cui godeva tra gli hébertisti, era stato
eletto al ruolo di segretario della Convenzione. Alla fine di marzo il suo nome
non era comparso neppure sulla lista dei seguaci di Hébert da consegnare al
boia. Nonostante ciò Carrier si attendeva da un giorno all’altro il castigo dell’”Incorruttibile”.
Le mani di Rovère non erano sporche di
sangue, ma non erano meno colpevoli agli occhi di Robespierre poiché
stringevano i beni che erano riuscite ad arraffare. Inviato in missione nel
giugno del 1793 nel dipartimento appena costituito delle Bouches-du-Rhône,
Rovère si era accaparrato così tanti beni nazionali, tra cui perfino un
convento dei celestini a Sorgues, nei pressi di Avignone, da suscitare sospetti
ed accuse a cui Robespierre non aveva esitato a prestare credito.
Roberto Poggi
Roberto Poggi
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