Il moltiplicarsi dei conciliaboli dei
deputati si accompagnò ad un aumento delle tensioni sia tra il Comitato di
Sicurezza Generale e Robespierre, sia all’interno del Comitato di Salute
Pubblica. Nel mese di aprile Robespierre e Saint-Just avevano costituito uno
speciale Bureau de Surveillance della polizia che riferiva direttamente a loro
ed al Comitato di Salute Pubblica, determinando una rottura del delicato
equilibrio istituzionale con il Comitato di Sicurezza Generale. Il timore,
rafforzato dalla legge di pratile sulle giustizia rivoluzionaria, che si stesse
delineando uno svuotamento dei loro poteri spinse Amar e Vadier, detentori del
controllo sulle forze di polizia, a reagire. Per colpire il loro avversario
agirono d’astuzia, ricorrendo alle allusioni, venate d’ironia, più che alle
accuse a viso aperto. Nella seduta del 27 pratile Vadier presentò alla
Convenzione un rapporto su di una vasta cospirazione appena scoperta, che
coinvolgeva una mistica ultra settantenne ed i suoi adepti.
Un agente al servizio del Comitato di
Sicurezza Generale si era infiltrato in una setta messianica che si riuniva in
rue Contrescarpe, sotto la guida spirituale di Catherine Théot, detta la “Madre
di Dio”. L’anziana visionaria, che in passato era stata anche internata in
manicomio, profetizzava l’imminente venuta sulla terra di un Messia dei poveri
che avrebbe ristabilito la Giustizia.
Tra i frequentatori abituali di rue Contrescarpe figuravano Gerle, un ex
monaco certosino, già deputato all’assemblea costituente, Quesvremont, il
medico della famiglia Orléans, la marchesa di Chastenois e perfino la cognata
del falegname Duplay che alloggiava Robespierre. Con consumata abilità Vadier
trasformò il delirante misticismo della setta in un progetto politico eversivo,
senza risparmiare battute salaci sui preti, sulla religione e sull’astinenza
dai piaceri terreni, lasciò intendere che il Messia invocato dalla Théot fosse
l’”Incorruttibile” in persona, strappando applausi e risate di intesa a molti
deputati. Tale ironica allusione si fondava su di un elemento probatorio, molto
probabilmente fabbricato ad arte, che Vadier non volle citare nella sua
relazione, riservandosi di esibirlo al momento più opportuno. Nella
perquisizione dell’appartamento di rue Contrescarpe era stata rinvenuta sotto
un materasso una lettera della Théot indirizzata a Robespierre, definito “il
Figlio dell’Essere Supremo, il Verbo Eterno, il Redentore del genere umano, il
Messia designato dai profeti”. Vadier cautamente sorvolò anche su di un altro
particolare compromettente. L’ex monaco Gerle aveva ottenuto un certificato di
civismo grazie all’intercessione di Robespierre.
La seduta del 27 pratile si concluse
con l’approvazione da parte della Convenzione del deferimento della Thèot e dei
suoi complici al Tribunale Rivoluzionario con l’accusa di aver cospirato contro
la Repubblica. Benché disgustato dalla messa in ridicolo del culto dell’Essere
Supremo ed offeso dal mal celato attacco personale, Robespierre, in qualità di
presidente della Convenzione, non poté opporsi a tale decisione dell’assemblea,
ma non rinunciò comunque a reagire alla provocazione di Vadier, cadendo nella
subdola trappola che gli era stata tesa. La sera stessa impose al Pubblico Ministero
del Tribunale Rivoluzionario, Fouquier-Tinville, di consegnargli l’incartamento del caso Théot.
Questa prevaricazione diede corpo all’accusa di essere di fatto un dittatore,
capace di calpestare le deliberazioni della Convenzione.
All’interno del Comitato di Salute
Pubblica, Collot d’Herbois, che aveva condiviso con Fouché la responsabilità
dei mitragliamenti di Lione, e Billaud, che era stato vicino ad Hébert ed aveva
accolto con disappunto l’introduzione del culto dell’Essere Supremo, ebbero
finalmente un pretesto per attaccare apertamente l’”Incorruttibile”. Un altro
membro del Comitato di Salute Pubblica, Barère, si era già schierato contro
Robespierre, collaborando con Vadier ed Amar alla redazione della relazione
presentata alla Convezione sul caso Théot. Anche i responsabili delle operazioni
militari all’interno del Comitato, Carnot e Prieur de La
Côte-d'Or uscirono dal loro riserbo per criticare il perdurante clima di
terrore, nonostante i successi che le armate rivoluzionarie stavano ottenendo.
Dopo la discussione furiosa ed
invelenita suscitata all’interno del Comitato di Salute Pubblica dal caso
Théot, Robespierre diradò per una quarantina di giorni, dalla fine di pratile
sino all’inizio di termidoro, le sue apparizioni pubbliche. Non tenne discorsi
alla Convenzione, prese la parola al Club dei giacobini soltanto per attaccare
Fouché ed in poche altre occasioni, firmò una trentina di decreti del Comitato
di Salute Pubblica che presumibilmente gli furono portati in rue Saint Honoré,
dal momento che disertò la maggior parte delle sedute. Parve estraniarsi dalla
vita pubblica, in parte disgustato dalla bassezza morale dei suoi colleghi di
governo oltreché dei suoi avversari, in parte costretto dalle sue precarie
condizioni di salute. Già in precedenza lo scontro con Danton e Desmoulins aveva
portato ad esaurimento le sue risorse fisiche ed emotive, costringendolo a
letto per alcuni giorni tra il febbraio e l’aprile del 1794. Da allora portava
sul volto e persino nella gestualità le tracce di un logoramento fisico
derivante da quello mentale. Barras in occasione del suo già citato incontro
privato con Robespierre lo descrisse così: “Gli occhi spenti e miopi si
fissarono su di noi. La faccia, con tratti volgari, era di un pallore
spettrale, con vene di colore verdastro; si muoveva di continuo. E anche le
mani, che stringeva a pugno e rilassava
di continuo come per un tic nervoso; anche il collo e le spalle avevano spasmi
convulsi.”
Lo stesso stato di prostrazione di
ventoso e di germinale si ripresentò alla fine di pratile, probabilmente aggravato
dal timore ossessivo di subire un attentato e dalle tensioni familiari,
provocate dall’aspro dissidio tra suo fratello minore Augustin e sua sorella
Charlotte. Sappiamo poco di come Robespierre trascorse questi quaranta giorni
lontano dalla ribalta pubblica. La rete di una dozzina di informatori guidata
dall’agente Guérin continuò a fornirgli quotidianamente informazioni
dettagliatissime sui movimenti dei suoi avversari. Ogni deputato indicato come
sospetto era pedinato e spiato giorno e notte, difficilmente poteva conversare
con un collega, mettere piede in un caffè o salutare un passante senza che gli
uomini di Guérin ne prendessero nota e riferissero. Grazie a questa massa di
informazioni raccolte in aperta violazione dei diritti dei parlamentari, Robespierre,
benché debilitato dall’esaurimento nervoso che offuscava la sua capacità di
giudizio tattico, mantenne il polso della situazione politica, in attesa del
momento più opportuno per riprendere saldamente nelle sue mani la guida della
rivoluzione. Almeno così si illudeva.
Mentre la classe politica
rivoluzionaria si preparava ad uno scontro all’ultimo sangue per stabilire a
chi appartenesse la leadership, il popolo, a Parigi ed altrove, si mostrava
sempre più scontento ed irrequieto. Sul
finire di giugno ci furono rumorose proteste nei quartieri parigini contro il
crescente numero di condanne capitali inflitte anche a noti sanculotti. I
carpentieri delle officine di stato entrarono in sciopero, denunciando
l’aumento dei prezzi dei generi alimentari. Lo stesso fecero i minatori, i
mietitori ed altre categorie di salariati. Questi inquietanti segnali sociali
convinsero Barère a mettere in atto un tentativo di ricomposizione delle
fratture tra i due Comitati ed all’interno dello stesso Comitato di Salute
Pubblica. La rinuncia ad ogni lista di proscrizione era la conditio sine qua non per la riconciliazione. Couthon e soprattutto
Saint-Just espressero un cauto interesse alla proposta, allettati dalla
promessa di Barère di un rinnovato impegno all’applicazione dei decreti di
ventoso rimasti lettera morta, che prevedevano la distribuzione agli indigenti
dei beni sequestrati agli aristocratici emigrati ed ai sospetti.
Il 5 termidoro, in occasione della
riunione congiunta dei due Comitati, Robespierre, pur essendosi preoccupato di
lanciare segnali di distensione a Vadier con la rinuncia al controllo del
Bureau de Surveillance, respinse con
decisione ogni ipotesi di compromesso. I cospiratori dovevano essere estirpati
ovunque si trovassero senza indugio. Il ristabilimento della virtù aveva la
precedenza su ogni altra considerazione, persino sulla realizzazione di una
vasta redistribuzione della ricchezza.
La
presunzione di incarnare la virtù repubblicana, e quindi l’autentico spirito della rivoluzione, spinse
Robespierre ad assumere l’iniziativa politica, facendo leva sulla Convenzione
in cui si illudeva di godere ancora di un’ampia e solida maggioranza. Il
lavorio sotterraneo di Fouché, di Barras, di Fréron, di Tallien e di Bourdon de
l’Oise aveva invece dato i suoi frutti, trasformando l’immagine dell’”Incorruttibile”
in quella di un dittatore assetato di sangue, pronto ad abbattere la sua
vendetta su tutti coloro che avessero tradito la purezza rivoluzionaria. Ed
erano in molti a tremare tra i deputati. Un eccesso terroristico, il sospetto
di arricchimento illecito, un passato legame, per quanto tenue, con un leader
già sacrificato sulla ghigliottina, come Danton o Hébert, una critica a
Robespierre sussurrata ad un collega e riportata da qualche spia avrebbero
potuto costare la testa.
Senza consultarsi né con Couthon, né
con Saint-Just, Robespierre pronunciò alla Convenzione, l’8 termidoro, un lungo
discorso, a tratti oscuro e sconclusionato, che promise castighi a tutti gli
oppositori, anziché compattare la maggioranza, lasciando intravedere una
prossima pacificazione.
La Repubblica continuava ad essere in
pericolo: “I nostri nemici sono in ritirata, ma solo per lasciarci alle nostre
divisioni interne.” Erano in corso i preparativi di una vasta cospirazione che
minacciava di mandare in rovina la Repubblica. Soltanto recuperando
l’originaria purezza rivoluzionaria e superando le fazioni la Repubblica
avrebbe potuto essere salvata: “Io dico che tutti i rappresentanti del popolo
il cui cuore è puro devono prendere la fiducia e la dignità che si confà a
loro”. Per rimarcare la differenza tra i veri patrioti e gli impostori e quindi
tra sé ed i suoi oppositori, Robespierre volle ricordare solennemente la
dimensione morale della rivoluzione: “La rivoluzione francese è la prima che
sia stata fondata sulla teoria dei diritti dell’umanità e sui principi della
giustizia… Le altre rivoluzioni non esigevano che l’ambizione, la nostra impone
delle virtù.” Tracciò quindi il profilo del vero patriota animato da: “..orrore
profondo della tirannia, …zelo compassionevole per gli oppressi, …amore sacro
per la patria, …amore… dell’umanità, senza il quale una grande rivoluzione non
è che un crimine eclatante che distrugge un altro crimine; (dall’)… ambizione
di fondare sulla terra la prima Repubblica del mondo…, (dall’)… egoismo degli
uomini non degradati che trova una voluttà celeste nella calma di una coscienza
pura e nello spettacolo incantevole della felicità pubblica! Voi lo sentite
ardere in questo momento nelle vostre anime: io lo sento nella mia.”
Respinse con tagliente ironia l’accusa
di aver applicato nella sua azione di governo metodi dittatoriali: “…sono
almeno sei settimane che la mia dittatura è spirata e che io non ho alcuna
specie di influenza sul governo: il patriottismo è stato più protetto? Le
fazioni più timide? La patria più felice?” Dall’allontanamento dalla vita
pubblica di uno “scomodo sorvegliante” solo i nemici della rivoluzione ne aveva
tratto vantaggio, trovando il coraggio di elaborare il progetto di
“…strappargli il diritto di difendere il popolo con la vita”. I veri “mostri”
che minacciavano la Repubblica erano coloro che “…avevano cacciato in fetide
carceri i patrioti e seminato il terrore in tutti gli strati e livelli della
società.”
I cospiratori si annidavano
dappertutto, nei comitati di governo e persino nella Convenzione. Occorreva
pertanto punire i traditori, distruggere le fazioni e rifondare la Repubblica
ristabilendo la potenza della Giustizia e della Libertà.
Robespierre ripeté lo stesso errore
tattico che aveva già commesso in pratile. E questa volta gli fu fatale. Per
oltre due ore si scagliò contro i nemici della Repubblica senza tuttavia
pronunciare i loro nomi, eccetto quello di Cambon, membro autorevole del
Comitato delle Finanze, che non aveva però lo spessore politico per diventare
l’unico capro espiatorio da sacrificare sull’altare della purezza
rivoluzionaria. Una decina di nomi autorevoli sarebbe stata sufficiente per
rassicurare l’aula intera, delimitando i confini politici dell’epurazione che
Robespierre intendeva praticare. A nulla valsero le richieste di Vadier,
Cambon, Billaud, Fréron e di una ventina di altri deputati di precisare le
accuse, di esibire la lista dei proscritti, l’”Incorruttibile” si ostinò a non dissipare
la vaghezza delle sue accuse.
Le allusioni minacciose lanciate in
tutte le direzioni politiche a tutte le personalità di maggior spicco della Repubblica
gettarono una massa di deputati disorientati nella disperazione che ispirò la
decisione di prendere parte attiva al complotto che da pratile si era andato
sviluppando. La Convenzione manifestò il suo malumore rifiutandosi di votare la
stampa del discorso di Robespierre.
Deluso ed irritato dalla presa di
posizione dell’aula a cui aveva fatto
appello, la sera dell’8 termidoro, Robespierre lesse lo stesso discorso al Club
dei giacobini per mostrare ai suoi nemici tutta la sua forza. Le sue parole
furono accolte da una formidabile ovazione. Collot d’Herbois, che presiedeva la
seduta, e Billaud cercarono di impedirgli di parlare, ma furono sommersi dalle
minacce gridate contro di loro.
Robespierre lasciò il Club gettando i
suoi entusiasti sostenitori nello sconforto: “Amici, avete appena udito le mie
ultime volontà, il mio testamento.” Poi sopraffatto dal pessimismo rispetto
all’esito della battaglia politica lo attendeva aggiunse: “Se dovrò soccombere,
ebbene amici miei, voi mi vedrete bere la cicuta con calma.” Sconvolto da
queste parole così disperate, il pittore David lo abbracciò come un fratello
gridando di essere pronto a bere la cicuta con lui.
Nella notte tra l’8 ed il 9 termidoro
avvenne la saldatura tra le diverse anime della cospirazione, fino ad allora
frammentate: i deputati richiamati dalle loro missioni in provincia per le
atrocità e le ruberie commesse, coloro che nei comitati di governo erano
entrati in contrasto con Robespierre oppure avevano un imbarazzante passato
hébertista, gli ex dantonisti superstiti, intenzionati a salvare sé stessi ed a
vendicare il loro leader, i tecnocrati all’interno del Comitato di Salute
Pubblica, come Lindet, Carnot e Prieur de La Côte-d'Or, che vedevano nella
prosecuzione ad oltranza del clima di terrore un intralcio alle operazioni
militari. Determinante fu infine l’adesione di Boissy d’Anglas, personalità
influente della Palude, il gruppo parlamentare più moderato ed anche più
numeroso della Convenzione.
Il 9 termidoro la seduta della
Convenzione iniziò alle undici del mattino in un clima di apparente normalità
con la lettura della corrispondenza e l’ascolto delle petizioni.
Fouché, il principale ideatore del
dramma che stava per andare in scena, si guardò bene dal mettere piede in aula.
Tra gli assenti quel giorno figurò anche David, forse non così ansioso di
assaporare la cicuta. In seguito si giustificò adducendo una improvvisa
indisposizione. Più verosimilmente nella notte tra l’8 ed il 9 termidoro fu
informato da Barère del probabile esito della seduta.
Intorno a mezzogiorno, quando
Saint-Just salì sulla tribuna con l’intenzione di pronunciare un discorso in
difesa di Robespierre, scoppiò d’improvviso un incidente sapientemente
orchestrato. Tra boati e grida, Tallien interruppe bruscamente Saint-Just, accusandolo
di aver calpestato il principio della direzione collegiale all’interno dei
comitati. Billaud, a cui bruciavano ancora le minacce di morte ricevute la sera
prima al Club dei giacobini, non esitò a confermare, aggiungendo che
l’intimidazione era diventato il metodo politico abituale dell’”Incorruttibile”
che parlava “…di continuo di virtù mentre difendeva il crimine…non c’è
rappresentante del popolo che voglia vivere sotto un tiranno.”
Molti deputati gridarono in coro: “No,
no!”
Colto di sorpresa da questo attacco
improvviso, Saint-Just non ebbe la forza di replicare, pallido ed attonito
tornò a sedersi mentre attorno a lui crescevano le grida e le ingiurie. Vedendo
precipitare la situazione, Robespierre chiese la parola per riprendere il
controllo dell’assemblea, ma fu zittito da grida altissime: “Noi non ascoltiamo
i cospiratori!”, “Abbasso Robespierre! Abbasso!”.
Sostenuto dagli applausi dei complici,
Tallien riprese la parola per affermare in tono melodrammatico di essere
“…armato di un pugnale per colpire il tiranno nel caso in cui la Convenzione
non fosse disposta a rendergli la giustizia dovuta agli scellerati.” Prima di
colpire a viso aperto il tiranno, Tallien si scagliò prudentemente contro gli
scellerati che lo attorniavano. Concluse il suo intervento chiedendo l’arresto
del comandante della Guardia Nazionale Hanriot e del suo stato maggiore.
Billaud non perse l’occasione per
reclamare a sua volta l’arresto di altri generali e funzionari vicini a
Robespierre. La Convenzione approvò le proposte di arresto senza discussione,
dimostrando, al di là del vociare di sottofondo, che la maggioranza
parlamentare era mutata.
I congiurati non intendevano limitarsi
a scalfire il potere dell’”Incorruttibile”, intendevano abbatterlo, perciò dopo
questo primo voto favorevole presero coraggio e moltiplicarono gli sforzi.
Barère pronunciò un discorso più misurato, ma egualmente sferzante nei
confronti di Robespierre: ”Le inquietudini fittizie ed i pericoli reali non
possono marciare insieme; le reputazioni enormi e gli uomini eguali non possono
sussistere a lungo in comune.” Fu Vadier con il suo tagliente umorismo a
mettere a segno un colpo mortale al prestigio di Robespierre: “A sentire lui,
Robespierre è l’unico difensore della libertà: la dà per perdente; è un uomo di
rara modestia e ripete all’infinito lo stesso ritornello: “Mi perseguitano, non
vogliono darmi la parola”; ed è l’unico che abbia qualcosa di utile da dire,
perché si fa sempre come vuole lui. Dice: “Il tal dei tali cospira contro di
me, che sono il miglior amico della Repubblica.”
Robespierre fece appello a più
riprese, ma senza successo, al presidente Thuriot, che aveva appena sostituito Collot
d’Herbois, per avere il diritto di replica: “Per l’ultima volta, presidente
d’assassini, io ti chiedo la parola… Accordamela o decreta che tu vuoi
assassinarmi!”. Assistendo incredulo al voltafaccia dell’assemblea che lo aveva
a lungo idolatrato, Robespierre lanciò rivolto alla Montagna sguardi rabbiosi
ed epiteti come “Banditi! Codardi! Ipocriti!”, che nel baccano dell’aula non
potevano essere uditi. L’impossibilità del presunto tiranno, sovrastato dalle
urla e dal tintinnio del campanello del presidente, di far giungere
all’assemblea il suono della propria voce ispirò ad un deputato montagnardo,
Garnier, una battuta feroce, che era il preludio della vendetta che stava per
consumarsi: “E’ il sangue di Danton che lo soffoca!”
Tutte le accuse riversate su
Robespierre con toni che andavano dall’invettiva al sarcasmo non avevano ancora
sortito alcun effetto rilevante sul piano legale. Nessuno dei capi della
congiura mostrava il coraggio di spingere lo scontro sino alle estreme
conseguenze. A rompere gli indugi fu Louchet, un oscuro deputato della Montagna
che chiese l’approvazione di un decreto di arresto contro Robespierre. Un altro
montagnardo, non meno oscuro, Loiseau, si affrettò a sostenerlo.
Superato l’iniziale sbalordimento, la
Convenzione approvò la proposta tra applausi furiosi e grida: “Arresto!
Arresto!”
Il fratello minore di Robespierre,
Augustin, non seppe rimanere spettatore impassibile, si rivolse con fermezza
all’assemblea per chiedere di essere sottoposto allo stesso martirio: “Sono
colpevole quanto mio fratello; io volevo fare il bene del mio paese, anch’io
voglio morire per mano di criminali.” Nessuno tra i deputati si oppose a questo
generoso sacrificio.
Ottenuto il trionfo sui due
Robespierre, impensabile fino a qualche ora prima, Louchet, che godeva della
protezione e dell’amicizia di Fouché e di Barère, riprese la parola per
chiarire che il voto appena espresso dalla Convenzione comportava
necessariamente anche la messa in stato di accusa di Couthon e di Saint-Just.
Un giovane collaboratore di quest’ultimo, Le Bas, si levò in piedi affermando:
“Io non voglio condividere l’obbrobrio di questo decreto; chiedo anch’io
l’arresto.” Ancora una volta la Convenzione non ebbe nulla da obiettare. La
burrascosa seduta si concluse intorno alle cinque e mezza del pomeriggio al
grido di “Viva la Repubblica!”
I deputati arrestati furono tradotti
al Comitato di Sicurezza Generale presso il palazzo delle Tuileries, in attesa
di essere inviati a diverse prigioni della città.
Il pieno successo dell’agguato
parlamentare non consegnò ai congiurati la certezza della vittoria politica.
Non appena si diffuse la notizia dell’arresto di Robespierre e dei suoi
fedelissimi, il sindaco di Parigi, Fleuriot-Lescot, ed il rappresentante del
governo presso il comune, Payan, che avevano applaudito il discorso di
Robespierre al Club dei giacobini, non esitarono a reagire convocando il
Consiglio Comunale che approvò all’unanimità la mobilitazione insurrezionale per
salvare la Libertà e la Repubblica. Ogni disposizione proveniente dal Comitato
di Salute Pubblica o da quello di Sicurezza Generale fu dichiarata nulla. I
principali congiurati, rei di aver oppresso la Convenzione, furono dichiarati
passibili di arresto. Al di là degli atti formali, furono adottate anche misure
di più immediata efficacia: furono chiuse le porte della città, fu ordinato che
le campane suonassero a martello per chiamare i patrioti a raccolta in Place de
Grève, davanti al municipio, dove le sezioni erano invitate a schierare i loro
pezzi di artiglieria, furono infine inviati degli emissari presso le carceri
per ingiungere di non accogliere i deputati appena arrestati. La mobilitazione
delle sezioni rivoluzionarie fu tuttavia piuttosto lenta. Mesi di terrore e di
processi sommari avevano falcidiato le fila dei sanculotti più determinati.
Delle quarantotto sezioni della città non più di tredici inviarono i loro
uomini a difesa dell’Hôtel de
Ville, le altre rimasero cautamente in attesa degli sviluppi della situazione,
chiedendo chiarimenti al comune sul da farsi, oppure tacendo.
Il generale Hanriot, comandante della
Guardia Nazionale, contro cui la Convenzione aveva spiccato un mandato di
arresto, mise le truppe a lui fedeli a disposizione del Consiglio Comunale, si
assicurò il controllo dell’arsenale militare, organizzò la difesa dell’Hôtel de Ville, poi confidando nel
proprio prestigio personale si diresse con un drappello di gendarmi alle
Tuileries con l’intento di liberare Robespierre e gli altri deputati arrestati.
Gli uomini posti a guardia degli
illustri prigionieri respinsero senza esitazione l’irruzione di Hanriot
all’interno del Comitato di Sicurezza Generale e lo arrestarono.
Intorno alle sette, i cinque deputati
furono trasferiti per ragioni di sicurezza a diverse prigioni. Robespierre fu
condotto a quella del Luxembourg, dove i carcerieri esterrefatti si rifiutarono
di prenderlo in carico. Dal Luxembourg l’”Incorruttibile” fu condotto alla sede
della prefettura al quai des Orfèvres, dove fu accolto dai funzionari con
acclamazioni e grida di entusiasmo.
Alla notizia dell’arresto di Hanriot
il Consiglio Comunale reagì nominando un Comitato esecutivo provvisorio ed
affidando al vice presidente del Tribunale Rivoluzionario, Coffinhal, il
comando di un reparto di cannonieri incaricato di liberare i deputati
incarcerati.
Intorno alle nove, senza incontrare
alcuna resistenza gli uomini di Coffinhal presero possesso del Comitato di
Sicurezza Generale e liberarono Hanriot che, montato a cavallo, condusse le
truppe ribelli contro la Convenzione.
Da un paio d’ore i deputati si erano
riuniti in seduta permanente per adottare contromisure adeguate a reprimere
l’insurrezione in corso. Il sindaco di Parigi, il rappresentante del governo
presso il comune e l’intero Consiglio Comunale erano stati posti fuori legge,
così come chiunque fraternizzasse con gli insorti. A Barras era stato proposto
di assumere il comando delle forze armate rimaste fedeli al governo legittimo.
Dopo qualche esitazione, dettata dalla grave incertezza della situazione, più che dalla consapevolezza
della propria inesperienza militare, Barras aveva finito per accettare di buon
grado il rischioso incarico.
Mentre in aula si svolgeva il
dibattito, gli artiglieri di Hanriot si impossessarono dei cannoni d’onore
posti nel cortile delle Tuileries e li puntarono sulla Convenzione. Resosi
conto dell’accerchiamento messo in atto dagli insorti, il presidente Collot
d’Herbois esortò i colleghi a morire con dignità al proprio posto, se
necessario.
Roberto Poggi