Ci sono sere in cui uno vorrebbe scrivere molto, riempire pagine e pagine, ma poi si trattiene. La regola aurea, in casi del genere, è "non lamentarsi e non spiegare". L'ho seguita tutta la vita e, le rare volte in cui l'ho violata, non so se e quanto mi sia giovato. Ho imparato da bambino, intorno ai 7-8 anni, a vivere nella più totale autonomia psicologica. Nel prosieguo della mia vita, ho cercato qualche volta di uscirne, ma raramente è stata una buona idea. Ho tentato di abbozzare delle costruzioni, ma erano più che altro mie costruzioni mentali. Potrei cessare di farne e di proporne, ma non è assolutamente il caso. "Non mi lamento, non spiego" e proseguo, con la stessa feroce determinazione di sempre: le lamentele sarebbero ineleganti, le spiegazioni noiose. Si combatte e basta: è il destino del guerriero esistenziale. A volte il relativo, cercato con disperata insistenza, diventa assoluto per iterazione, ma è meglio non farsi illusioni in tal senso, anzi.
Il mio primo ricordo è relativo a quando - avrò avuto tre anni - a Saluzzo sono caduto con il mio triciclo in un canaletto d'acqua. Ricordo la solitudine e il terrore di quei momenti, e poi la corsa in ospedale, la profonda ferita al sopracciglio, le cure dei medici. In ogni momento di grande difficoltà, materiale o psicologica, quel ricordo mi viene in mente, e mi dice: "sei nato solo, morirai solo". Lo so, ma non ho paura. Non mi lamento, non spiego. A che servirebbe, poi? La solitudine ontologica è un dramma con cui fare i conti ogni giorno, ma del resto già il filosofo ammoniva a "non guardare troppo l'abisso, o l'abisso guarderà te!". Io lo guardo tutti i giorni e se questa - in vari modi e da varie parti - è considerata Ubris, allora il solo pensiero che possa esserlo disegna sul mio volto un pallido sorriso. Cosa c'è di meglio del prometeismo, non importa se rivolto agli dei o agli uomini?
Piero Visani