Piazza Carlo Felice, Torino. Passo davanti all'Hotel Roma. Non mi capita spesso. Il pensiero corre inevitabilmente al fatto che, proprio in una camera di questo hotel, il 27 agosto 1950, una domenica come oggi, si suicidò lo scrittore Cesare Pavese.
Ci penso ogni volta che passò davanti a questo albergo, ma - come dicevo - non mi capita troppo spesso.
Aveva solo 42 anni ed era uno scrittore affermato. Ma credo abbia fatto bene. Quando ti senti radicalmente incompreso e sei sormontato, anzi soverchiato, da problemi irresolubili, il suicidio è una via d'uscita, la migliore possibile.
Taluni sostengono che si tratti di un urlo disperato, un ultimo tentativo di far convergere su di sé l'attenzione degli altri. Non sono d'accordo. E' una semplice modalità di congedo. Quando ti accorgi che stare al mondo non ti serve a nulla, che ti fa solo soffrire, che per gli altri non sei niente, forse neppure un ologramma di te stesso, la cosa migliore è compiere il gesto che un grande pensatore come Emile Cioran definiva come l'unico, autentico atto di libertà a disposizione di un uomo. Vivere è una disgrazia, e la nascita è un'irrimediabile sciagura. E nessun genitore ti pone mai il quesito fondamentale: "figlio mio, sei contento che ti abbia messo al mondo?".
Da giovane, ti accompagna la speranza che le cose possano cambiare. Da vecchio anche quella speranza tramonta: e ti rimane una catena di insuccessi, di rifiuti, di frustrazioni, di incomprensioni. Ti rimangono tentativi di dialogo andati a male, sforzi di empatia andati peggio, slanci di vita soffocati, repressi, compressi, denegati. Sensazioni di non essere stato mai compreso davvero, in vita tua, nemmeno per un attimo. E ti chiedi se, magari solo per errore, qualcuno abbia mai voluto davvero ascoltarti. E' per quello che scrivi. Scrivere equivale alla bottiglia del naufrago. Qualcuno un giorno la troverà. Per te sarà ovviamente troppo tardi, ma, forse, qualcuno spargerà per te una lacrima, cosa che in vita non ti era mai capitata nemmeno per errore, mentre tu di lacrime e di slanci ne avevi spesi, giorno dopo giorno, fino ad esaurirti.
Che vivi a fare? Se appartenessi alla cultura nipponica, avrei davanti a me il Bushido, "la via del guerriero", quella che ti consente di uscire di scena - come il grande Yukio Mishima - con un fantastico suicidio rituale, con il seppuku (più noto come harakiri), che ti consente di dimostrare al mondo che il guerriero non ha alcuna paura di sfidare la morte. Anzi lo fa con un sorriso di sprezzo sulle labbra.
Nel mondo occidentale, per contro, il suicidio del guerriero è considerato una resa, anzi la peggiore, delle rese, e l'obbligo etico è quello di morire con le armi in pugno.
E' quello che farò, è quello che dovrò fare. Ma è un enorme sacrificio, continuare così, in mezzo a cose, persone e situazioni che non fanno altro che ricoprirti di sputi, di accuse, attribuendoti caratteri che non hai, responsabilità che non hai, mostruosità che ti sono del tutto estranee.
Non ne posso più. Se non compio quel supremo passo, è perché la mia etica guerriera occidentale me lo preclude, e anche perché non voglio dare soddisfazione ad alcuno. Ma è l'unica cosa che farei davvero volentieri. Se faccio orrore a tutti, vorrei almeno evitare di continuare a turbarli con la mia presenza.
Piero Visani
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