mercoledì 29 maggio 2013

La teoria del bicchiere

       Un'amica mi scrive per dirmi che ha raggiunto un'elevato livello di serenità accontentandosi di quello che ha. Premesso che il termine "serenità" è uno di quelli che mi disturba di più, le rispondo, tra il serio e il faceto, che un bicchiere riempito a metà a me appare sempre mezzo vuoto, non mezzo pieno.
       Lei mi fa garbatamente notare che in questo modo posso avere problemi relazionali e io le dico di no: "Non interpreto questa cosa con rigidità. So anch'io adattarmi alle situazioni. In ogni caso, le considero situazioni residuali, insoddisfacenti, destinate a non portare da nessuna parte. Che cosa mi serve avere un rapporto a metà con quella persona, se quella persona mi interessa davvero? Perché dovrei rinunciare a leggere un libro, per leggerne la sintesi?".
      "Il fatto è" - obietta lei - "che spesso la metà è il massimo cui ci è consentito di arrivare".
      "Che verbo orribile" - ribatto io - "'consentito'! E da chi? E perché?".
      "Dalla tua partner o dalla persona con cui ti relazioni".
      "Bella relazione!" - commento io - "sembra un rapporto tra due questure! In verità, mia cara, se un rapporto è ridotto a quello, non lo si può definire nemmeno un rapporto".
      "Sei sempre molto radicale, nelle tue affermazioni", sospira lei.
      "No, assolutamente. Non è così. Me lo dicono in tanti, ma non è così! Tutto è legato a quanto vale la relazione. Se vale poco, si può mediare. Se vale molto, non ha senso alcuno farlo".
      "Perché dici così? Non è meglio una parte del tutto, piuttosto che niente?".
      "In teoria, avresti ragione. Ma ci sono molte variabili da considerare". C'è l'arrivare a un compromesso del genere sulla base di una mediazione condivisa, e c'è la soluzione residuale. Quella la rifiuto a priori?"
      "Perché?"
      "Perché sembra un octroi, una concessione lasciata cadere con degnazione dall'alto, da qualcuno che si reputa superiore, che vuol farti vedere che sei ammesso a corte, dunque devi essere contento..."
      "In casi del genere, che cosa fai?" - chiede lei, incuriosita.
      "Rompo il rapporto".
      "Non ci credo!"
      "Perché no? Non sarebbe paritetico. Io posso mediare sull'incontro/scontro di due desideri diversi. Che senso avrebbe mediare su un rifiuto? Volevo 100, mi offri 50. Che devo dire? OK il prezzo è giusto?  Questo non è più un rapporto tra esseri umani, è una mediazione commerciale".
       "Così però rischi di perdere tutto. Anzi suppongo che tu lo perda proprio" - osserva lei con aria di donna che sa di cosa sta parlando.
       "In realtà, non perdo più di quanto non perda lei. Io la vedo così: io vorrei il bicchiere pieno. Me ne si offre metà. Posso transare, ma a condizione che non sia una "gentile concessione", un octroi. Se lo intendo come tale, per me è finita".
        "Come fai a capire se lo è o non lo è?" - chiede la mia interlocutrice, incuriosita.
        "Vado a intuito".
        "Però perdi tutto".
        "Perdonami, ma è un calcolo errato. Io volevo 100 e mi si offre 50. Se lo accettassi, io perderei sicuramente 50, mentre la mia partner otterrebbe esattamente quello che vuole. Distruggendo tutto, anche lei subisce una perdita di 50, esattamente come la mia. Solo uno stolto potrebbe dire che io perdo 100 e lei 50. E' un calcolo da ragionieri. Per me già scendere a 50 era una gravissima perdita. C'è una qualità dei numeri che non è misurabile in termini puramente quantitativi. Non posso accettare una vittoria della mia controparte senza battere ciglio. Le procuro una sconfitta come lei voleva procurare a me. Entrambi perdiamo 50. E' solo un dato quantitativo dire che io perdo 100. Viene del tutto trascurato l'aspetto qualitativo".
       "E ti va bene così?", insiste lei, entrando nel campo del calcoletti tellurici così tipicamente femminili.
        "No, certo che non mi va bene. Ma, davanti a una classica no win situation, non voglio che a vincere sia lei. Perdiamo tutti e ci dimentichiamo".
         "Ti sembra una bella soluzione?" - continua petulante lei.
         "No, è pessima, ma lascia memoria di noi. Io continuo a poterla idealizzare come donna che merita 100, lei mi può odiare come uomo che ha scelto deliberatamente zero potendo accontentarsi di 50. Una via di mezzo tra un pazzo e un mostro, nella mentalità di lei. Un duplice rifiuto - il suo e il mio - nella mia. Mi si era offerto il più classico dei ripieghi. Io ringrazio e me ne vado".
         "Sembri pazzo anche a me", aggiunge lei, contenta di farmi sapere il suo parere.
         "Non ne dubito, ma, se non prendi atto che in una relazione siamo in due, allora non è una relazione, sei solo tu. O solo io". 
          "Sì, questo è vero" - ammette lei.
           "E allora diventa il suo ego contro il mio: lei la vorrebbe in un modo, io in un altro. Ma quella è la fine della relazione. Infatti in genere lo è".
           "Non ti sembra di essere troppo drastico?", mi chiede lei con la classica insistenza degna di miglior causa.
           "No, perché sono in grado di individuare nitidamente i compromessi creativi e ricchi di potenzialità, e quelli residuali. Finché vedo che sono del primo tipo, li accetto; quando diventano residuali, lascio".
           "Ti restano dei rimpianti?" - chiede lei con tipica curiosità femminile.
           "Sì, moltissimi. Ma - intendiamoci - io rimpiango quello che non è stato e che avrebbe potuto essere, perché ne vedo tutte le potenzialità. Non posso rimpiangere un compromesso al ribasso. Ho ben presente le frasi del tipo: "beh, vediamo che cosa si può salvare della nostra relazione". Mi vedi come 'saldo di fine stagione?'".
            "No, francamente no. Non ne hai le caratteristiche. Però così rischi di soffrire come un cane" - dice lei, impietosita.
        "Sì, è così. Ma avevo altra scelta?".
        "Se ti adattavi a un compromesso, forse..."
        "Ti prego, siamo seri. Se qualcuno avesse tenuto a me, non avrebbe creato condizioni del genere. Se le ha create, è perché mi voleva togliere di torno. Legittima aspirazione, ma, nel momento in cui la vedo manifestarsi, preferisco uscire di scena io. Non è una questione di chi lascia per primo, non mi interessa. E' un semplice atto di dignità. E' come dire: 'Non ti preoccupare. Ci sarà sicuramente qualche altro che si accontenterà dei tuoi rifiuti. Io no'".
         "Sei tremendo" - osserva lei stupita.
          "No, per nulla. So solo quando è ora di chiudere, e come. In genere il mio modo di chiudere dà molto fastidio. Attiro odio. E' un modo per farmi ricordare. Io non odio alcuno, anzi continuo a voler bene. E solo il mio modo per farmi ricordare, e per ricordare che i calci fanno male, a chi li prende...".
           "Sei sempre un romantico..." - si congeda lei, penso con intenti ironici.
           "Se lo intendi in senso filosofico, e non banalmente comune, sì, lo sono".
 
                             Piero Visani
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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