mercoledì 5 giugno 2013

Ma se ghe pensu

      Mio padre nacque a San Pier d'Arena, nel gennaio del 1912. La famiglia era assolutamente romagnola, di Marradi, località che poi finì per essere "spostata" in Toscana, per ridefinizione dei confini regionali.
        Tra fratelli e sorelle erano in sei (quattro maschi e due femmine), più altri due - se ricordo bene - uccisi dall'epidemia di spagnola che imperversò in Europa nel 1918, alla fine del primo conflitto mondiale.
        Non genovese di nascita, ma immigrato, fin da bambino fu acceso tifoso doriano e tale rimase fino alla fine dei suoi giorni. Sapeva parlare benissimo il dialetto genovese e a Genova rimase sempre legato, perché tutta la famiglia continuò a vivere lì. Lui ci andava periodicamente e ritornava spesso come rivificato.
         Credo che Genova fosse per lui un luogo dell'anima. Conosceva canzoni genovesi tristissime, a cominciare dalla mitica Ma se ghe pensu, e le cantava con quella sua voce favolosamente intonata, intepretandole pure, perché aveva spiccata vocazione attoriale (voce e vocazione che ha trasmesso a me, peraltro, anche se della prima faccio scarso uso, se non che in privato, e della seconda faccio un uso maggiore, ma non vorrei parlarne in questa sede).

       Non ho mai nutrito sentimenti analoghi a quelli paterni, per Genova, perché sono nato ad Aosta (la città di origine di mia madre), cresciuto i primissimi anni della mia vita a Saluzzo (in provincia di Cuneo) e poi trasferito in via definitiva (credo nel 1956) a Torino, città che peraltro mi lascia del tutto indifferente, a parte la bellezza del suo rigore estetico e delle sue palesi radici francesi.
        Ho cominciato a riscoprire Genova alla fine degli anni Settanta, quando ho conosciuto Maurizio Cabona. Ero solito andare ogni tanto a trovarlo con mia moglie e lui, quando non ci ospitava a casa, ci portava in qualche bel ristorante del centro storico o della Foce. E naturalmente ripresi ad ammirare la "Superba", che è bella, a saperla scoprire.
        Sono tornato a frequentare Genova con assiduità solo dal 2010, dapprima per tenere alcuni corsi di formazione, poi per sviluppare le attività della mia società. E ho avuto anche la fortuna di incontrare nuovamente mia cugina Anna, dopo quarant'anni che non ci vedevamo...
         Ricordo che, il 22 dicembre 2010, poiché il corso di comunicazione che stavo tenendo si svolgeva a Sampiedarena, durante la pausa pranzo ero andato a vedere i luoghi dell'infanzia di mio padre, per ritrovare le mie radici e, al tempo stesso, per capire le ragioni della mia "diversità", per capire che cos'è che mi ha sempre fatto sentire "diverso", da tutto e da tutti.
         Era una giornata gelida, tirava un vento freddo dal mare, ma ricordo quella passeggiata, per quelle viuzze, per quei carrugi, come un autentico viaggio à la recherche du temps perdu. Ho cercato di parlare e di parlarmi. Ho cercato di lasciare che i luoghi mi parlassero. Ne ho desunto sensazioni a varie tinte, ma che ricordo bene, perché all'epoca il mio animo era diverso da quello attuale, meno vulnerato.
         Ho cercato di trovare, in quelle vie rese vuote dal freddo, dal vento e dall'ora di pranzo, alcune risposte esistenziali e familiari, che naturalmente non ho trovato. Ma ho respirato quell'atmosfera, quelle pietre, quegli ambienti, cercando tracce, sedimenti, radici.
         Poi sono ritornato a far lezione, come rinfrancato. Nei tre anni e mezzo successivi sono stato molte volte a Genova e Sampierdarena, quasi mai per occasioni divertenti, in genere immerso in mezzo a tristezze varie e di varia natura. Però oggi la città mi piace, forse perché, nella sua intima essenza, ho individuato qualche antico sedimento mio. E di fatto, ogni volta che ci ritorno, lo intendo un po' come un tributo postumo a mio padre.
                                      Piero Visani

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